«Ogni volta che mi ritrovo sulla bocca una smorfia amara; ogni volta che nell'anima ho un novembre umido e stillante; quando mi sorprendo a sostare senza volerlo davanti ai magazzini di casse da morto, o ad accodarmi a tutti i funerali che incontro; e soprattutto quando l'ipocondria riesce a dominarmi tanto, che solo un robusto principio morale può impedirmi di uscire deciso per strada e mettermi metodicamente a gettare in terra il cappello alla gente, allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto.».

Non chiamatemi Ismaele, ma Pinhead: perché io in questi casi, senza nemmeno bisogno d'imbarcarmi, me ne vado a saltellare al ritmo dei canguri. Giusto il tempo di ripescare dalla polverosa discoteca un qualsiasi vinile targato Australia ‘80.

Questa volta tocca ai New Christs. E chi non conosce di costoro vita, morte, resurrezione e miracoli, è capitato nella pagina sbagliata: non sono mica qui a spiegare Rob Younger ai pivelli!

Io, il Rob Younger dei New Christs, l'ho odiato con tutte le mie forze e l'avrei ammazzato volentieri. Cioè, il gruppo si forma nel 1980, ed in otto anni cosa fa? Pubblica cinque singoli per dodici canzoni; ed ognuno di quei singoli mi illude che poi arriva l'album, come un disperso nel deserto si illude che l'oasi non sia solo un dannato miraggio. Nove anni ci hai messo, maledetto Rob, per tirare fuori un album, e per tua fortuna «Distemper» è un disco per la vita; perché ogni volta che lo ascolto, dimentico la lunga attesa invano e ti perdono per la sofferenza inflittami.

E pochi mesi prima di «Distemper», arriva «Divine Rites»: quei fatidici singoli raccolti tutti insieme, davanti a me sullo scaffale del negozietto di fiducia, e già allora ho capito che Rob l'avrei perdonato. Perché «Divine Rites», più ancora di «Distemper», è il rock degli anni Ottanta, tutto quello che può desiderare chi ancora aspetta il seguito di «Living Eyes».

E poi perché qui ci sono i due brani che, per me, portano a compimento l'epopea Birdman, «Born Out Of Time» e «I Swear».

Sono solo emozioni: quelle di Rob Younger che a un certo punto ruggisce «Wanna make you understand that I was born out of time» e quel ruggito è la cosa più emozionante che mi sia capitato di ascoltare fuoriuscire dai solchi di un vinile in oltre trent'anni; o quelle dell'attacco chitarristico di «I Swear» ed è bello pensare che ci sia anche Deniz Tek a giurare fedeltà alla causa e poi quando entra Rob ti rendi conto che non c'è più nulla da fare o da dire, se non rimanere storditi dinanzi a simile meraviglia.

Tutto il resto potrebbe assurdamente passare in secondo piano, dallo schiacciasassi «Like A Curse» a «You'll Never Catch My Wave», sorta di «Aloha Steve And Danno» aggiornata ai tempi che corrono.

Come ebbi modo di scrivere in un precedente intervento, e scusate l'autoreferenza: «... semplicemente, da ventitre anni a questa parte, il rock'n'roll nella sua versione definitiva». Era il 14 dicembre 2010, ma non cambio una virgola.

E scusate se da queste poche righe si capisce poco o niente, se non che chi ci trova un senso è come un fratello con cui condividere un'emozione.

Oppure, è come un genitore che «... nel ritornare sui suoi passi in cerca dei figli perduti, trovò soltanto un altro orfano.». Perché «Divine Rites» è grande come «Moby Dick», ti fa battere il cuore forte e ti innamora.

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