Per ogni band dedita al metallo “pensante”, giunge prima o poi il fatidico momento del concept. Per una band fuori dal comune come gli Ocean, per i quali il concept è la regola e non l’eccezione, l’asticella dell’ambizione si alza ulteriormente: giunti al sesto full-lenght, dopo una serie di lavori oscillanti fra il buono e l’ottimo, fra cui gli ultimi due superlativi album cugini “Heliocentric” e “Anthropocentric”, parti speculari del medesimo concept (appunto!), il fisiologico obiettivo sfidante a cui mirare rimaneva l’album-suite.
E così è stato: “Pelagial”, ultimo parto discografico licenziato dalla band tedesca capitanata dall'instancabile Robin Staps, è una lunga composizione di cinquantatre minuti, solamente per la comodità dell’ascoltatore divisa in undici tracce. Primo punto a favore per gli Ocean: contrariamente a tante altre situazioni analoghe (si guardi per esempio al “The Incident” dei Porcupine Tree, ma si potrebbero fare molti altri esempi, e più illustri, come l’ormai mitico “A Pleasant Shade of Gray” dei Fates Warning) “Pelagial” non è il tipico gruzzolo di canzonette collegate fra di loro in modo posticcio, con qualche intermezzo e due/tre temi che si ripetono che fanno "tanto figo", ma una vera composizione, un unico flusso sonoro le cui parti prese singolarmente hanno (e giustamente) poco senso.
Aiuta senz’altro il fatto che l’album era stato concepito, composto e suonato come strumentale (salvo un paio di pezzi, che originariamente dovevano ospitare la voce), scelta dettata anche dai problemi alle corde vocali denunciati dal cantante (ormai in pianta stabile nel collettivo) Loic Rossetti. Solo a registrazioni terminate Rossetti si dichiarerà in grado di prestare la sua ugola al lavoro: non male il risultato, se si pensa che il cantante si è dovuto adattare ad una base già pronta e rifinita e destinata a rimanere tale e strumentale.
Quindi una composizione unica, si diceva, dove la suddivisione in capitoli rimane funzionale ad esprimere il carattere “graduale” del concept illustrato (impostazione non nuova nella storia della band, che adottò un approccio simile con “Precambrian”): “Pelagial” intende infatti descrivere le diverse fasi che caratterizzano la progressiva discesa negli abissi del mare (vero punto di approdo artistico, in tutti i sensi, per una band che si chiama Oceano). Processo di progressiva immersione che non si risolve in una mera questione di pascal (l’idea sarebbe quella di descrivere le sensazioni di pressione crescente che si vivono scendendo dalla superficie alle profondità più insondabili della massa acquea, e la musica dovrebbe in tal senso procedere di pari passo, in modo liquido (appunto), dall’elegante piano jazzato dell'incipit all’opprimente doom che si impone nella parte conclusiva dell’opera): fuor di metafora (quella “marina”, intendo), il viaggio può assumere valenze di tipo diverso, e psicologiche, e esistenziali, e non a caso il processo di scrittura dell’album trae ispirazione dal film “Stalker” del cineasta russo Andrej Tarkovskij, fantascientifico per modo di dire, che narra dell'estenuante ricerca della “Zona”, la stanza dove possono avverarsi, al di fuori di ogni legge della fisica, i sogni e i desideri più intimi. Solo per motivi legati ai diritti d’autore, i dialoghi del film non sono divenuti i testi che sarebbero stati enunciati da una voce fuori campo (idea originaria di Staps) da incuneare lungo il multi-stratificato blocco strumentale che compone il corpus dell'album.
Facciamo adesso una riflessione antipatica: se prendessimo un meschino metallaro vecchia scuola, lo ibernassimo nel 1984 e lo risvegliassimo adesso, probabilmente non crederebbe alle proprie orecchie: suite di cinquantatre minuti? Piano jazzato? Tarkovskij? Possibile che il metal sia giunto a questo livello di sublimazione? In effetti, da un punto di vista formale, gli Ocean sono sicuramente la punta di diamante del metallo odierno: a metà strada fra Isis, Opeth e gli immancabili Tool (con grosse virate verso il post-rock strumentale dei vari Explosions in the Sky e Pelican), riescono a coniugare melodia, tecnica, potenza ed intelligenza più di quanto sia possibile fare con chitarre, basso e batteria dalla maggior parte dei loro colleghi. Ma non solo, se prendessimo l’acerrimo nemico del meschino metallaro del 1984, ossia l’ottuso bravo ragazzo testa di cazzo della parrocchia che ascoltava nei medesimi anni Madonna e Concato, se gli facessimo sentire “Palegial” potremmo urlargli finalmente nelle orecchie: “Lo vedi, stronzo, che il metal non è solo rumore e che i metallari sanno suonare meglio dei Simply Red???”. Questi sono dati di fatto, ma qui non si conclude, né si esaurisce qui, l’argomento The Ocean.
Amici miei, svelo quindi la mia missione: oggi il mio compito non è quello di incensare forse uno dei migliori album dell’anno in materia post-metal, frutto dell'impegno e della professionalità di una delle migliori band in circolazione; sono semmai a dirvi che se questo è il meglio che il metal oggi può offrire, allora il metal è messo male assai. O meglio, è messo come sempre. In pratica: anche le nuove generazioni metalliche, per quanto evolute, raffinate, più aperte, competenti, in possesso di maggior gusto, mi potranno parlare anche di Dostoevskij e dei Fratelli Karamazov, ma conservano irrimediabilmente l'ottusità degli avi (ma non la genialità), amplificata da una conoscenza orizzontale che permette di abbracciare orizzonti più vasti (e non a caso il processo di evoluzione finisce per coincidere con la contaminazione più che con l'invenzione), ma non permette di procedere in profondità, come se la soglia dell’attenzione si fosse abbassata, come se si sapesse di più, ma in modo più superficiale. Ed è un paradosso sostenere questo ascoltando un'opera che intende proprio scavare in profondità.
Faccio un esempio: ci potremo anche spellare le mani dagli applausi innanzi ad un lavoro impeccabile come “Pelagial”, magari sono finezze insolite da queste parti, e possono anche puzzare di novità (ma nemmeno poi tanto, visto che da “Panopticon” in poi gli Isis hanno sdoganato queste sonorità ai quattro venti, ed era il 2004, quasi dieci anni fa): il post-rock è evidentemente il modo più chic di suonare metal oggi, ma cos’è il post-rock oggi? Il post-rock è un genere superato, già da diversi anni, che se fosse preso come paradigma dagli artisti più “in”del momento questi sarebbero presi a pomodori in faccia senza pietà, da pubblico e da critica specializzata (figuriamoci dagli storici della musica). E senza stare a scomodare gente come Slint o Tortoise, limitandoci piuttosto ad un lavoro come “Young Team” dei Mogwai, possiamo francamente affermare che quell’album, in cui gli scozzesi illuminati già avevano praticamente codificato il genere nella formula che oggi prevale (ossia quella della lunga suite strumentale e del crescendo emotivo strappa lacrime), era del 1997 e quindi vecchio di sedici anni. Capite quindi cosa intendo quando parlo dell'ottusità della collettività metal? Percepire (e far sembrare) fresche cose di quindici anni prima. Quindici anni sono gli anni che passano, per esempio, fra “In the Court of the Crimson King”, la fonte battesimale del rock progressivo, e “Ride The Lighting”, l'album che più di altri ha cambiato il volto del metal estremo: due ere geologiche diverse. Il post-rock, invece, per il metallaro è ancora oggi una novità, e pensate che tra costoro c'è ancora chi non l'ha digerito.
Ma il problema non è nemmeno del post-rock, il problema è il fatto che l’album non regge da un punto di vista concettuale. Ho letto e riletto in varie recensioni questa fantasmagorica idea di musica che si appesantisce mentre l’ascolto procede, come del resto il concept richiede. Ed invece no!, gli Ocean non ce l’hanno le palle di portare fino in fondo le premesse. E’ vero, partono leggeri ed arrivano pesanti, ma nel bel mezzo capita un po’ di tutto e non è che vi sia una linearità nel procedere: il sound si appesantisce (ad un certo punto diventa pure death metal con tanto di blast-beat), poi si alleggerisce (c'è persino una ballata che rasenta i neo-melodici napoletani), poi si appesantisce di nuovo ecc., ed è anche un bene, perlamordiddio, perché altrimenti l’ascolto sì che sarebbe stato pesante per davvero. Ma se dovevi far passare l'idea della ricerca, della ricerca faticosa, della ricerca esistenziale, della ricerca che costa fatica, impegno, attese, rotture di coglioni, quella ricerca che pur nel dolore e nella noia ti fa crescere, nei fatti l'album è pure troppo indulgente con l'ascoltatore, finendo per intrattenere con belle melodie e cambi di ambientazioni che suonano accattivanti nel loro susseguirsi, ma che infine non lasciano niente: arrivati al silenzio che segue il cinquantatreesimo minuto, l'impressione è si essere sempre i soliti, e di aver passato cinquantatre minuti piacevoli. “Stalker”, il film di Tarkoskij, sfondava i coglioni, mica scherzi, ma almeno ti lasciava con un senso di pienezza che “Pelegial” nemmeno si sogna (pretenderò troppo? Ma allora prendiamo "Dreaming Neon Black" dei Nevermore, quella sì che era una discesa negli inferi dell'inconscio!).
Belle melodie e bei campi di tempo, quindi, stratificazioni sonore ben architettate e profusione a gogò di tecnicismi (in particolare sul fronte delle ritmiche e degli intrecci di chitarre), ma quasi mai (salvo qualche passaggio melodico veramente, ma veramente azzeccato) si sfiora la vera genialata (e di genialate “Panopticon” ne era pieno a palate, ed anche di cuore, cosa che è sempre a mio parere mancata nella musica degli Ocean).
Altro problema: quest’incapacità di sintetizzare la soluzione giusta e renderla nel modo più funzionale possibile, esaltandola nel giusto contesto, con le giuste attese: 'sti metallari di oggi son capaci di tutto, ma non di scegliere, né di aspettare, figuriamoci se si parla di una canzone di cinquantatre minuti, luogo in cui il modus operandi si traduce automaticamente in “via libera a tutto quello che passa dalla testa e dalle mani” (in questo “Heliocentric” mi era sembrato meno dispersivo). Tale è l'incapacità di scelta di Staps (e in questo intuisco una debolezza da parte del leader, o per lo meno la sua inconscia incapacità di credere fino in fondo nel suo lavoro), che nella confezione (curatissima come al solito) ci ritroviamo due cd: la versione ufficiale, quella cantata da Rossetti, e l'originaria, quella strumentale, come se con la prima si perdesse qualcosa d'importante della seconda a cui non è possibile rinunciare, un qualcosa quindi che si è deciso di salvare sotto forma di bonus-disc. Versione che invece ho voluto ascoltare con attenzione, poiché, non amando particolarmente il timbro vocale di Rossetti, vi speravo di trovarci il vero capolavoro, cosa che però non ho rinvenuto, dato che se da un lato questa versione permette di cogliere in modo più vivido il lavoro certosino fatto dalla band sul lato compositivo ed esecutivo, dall'altro l'ascolto risulta un poco più faticoso, anche perché si capisce che la suite si compone in definitiva di pezzettini, tanti pezzettini, tantissimi pezzettinetti, messi uno dopo l'altro, senza presentare nel loro insieme quella caratura di “continuum” (come se la band sapesse suonare, e molto, ma non così abbastanza da poter gestire con maturità e sensibilità da musicista veramente adulto una vera sinfonia, benché sempre di metallo si parli), continuum che, ad un ascolto superficiale, dietro al paravento ingannevole della performance di Rossetti, ci era sembrato di intravedere e riconoscere.
La voce di Rossetti, infine: in franchezza, non l'ho mai sopportata, mi ricorda Marco Carta che canta post-hardcore. Dotato tecnicamente, povero ragazzo, si fa in quattro cimentandosi nei registri più disparati, intonatissimo nel pulito (anche se la sua impostazione mi appare leccata ed asettica, tipica di chi esce da un talent show), meno convincente nel growl (per niente potente). La voce di Rossetti, diciamolo, infighettisce la musica degli Ocean, che già un po' fighetta di suo lo è: la differenza fra la vecchia scuola e il metal di oggi, mi verrebbe da pensare, è la stessa che corre fra i vecchi barbieri di una volta, che per un taglio di merda ti facevano perdere un'intera giornata, eri costretto a subire i discorsi più triviali (ma almeno potevi leggerti di soppiatto un fumetto porno), e i fotonici parrucchieri di oggi, velocissimi e competentissimi, mezzora nel frastuono della techno e del ruggito di una ventina di phon sparati in simultanea, per poi uscire con un taglio comunque di merda.
Ma tanto i capelli ricrescono e se nonostante tutto questo mio sparlare in cima alla recensione trovate il massimo dei voti, è perché è letteralmente impossibile (e in qualità di recensore avrei peccato di disonestà) non riconoscere gli altissimi meriti di questi ragazzi che, con tutti i limiti che si portano dietro (son pur sempre metallari, no?), riescono a confezionare un lavoro perfetto, curato nei minimi particolari, con dei suoni stupendi e delle trame strumentali (qua e là supportate anche da un ensemble di archi ed un bellissimo pianoforte classicheggiante) che certo fanno invidia a molti, dentro e fuori il confine del metallo. Ascoltatelo quindi, e non date retta ad uno scemo, leggete le altre recensioni, che sono scritte meglio.
Ciao.
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