Doverosa premessa: mi scuso in anticipo per essermi dilungato molto su questo lavoro, ma se avrete la forza (se non proprio il piacere) di arrivare in fondo, converrete con me che si sta trattando un capolavoro assoluto.
Sul finire del decennio aureo dei 60, in Olanda esplode la follia musicale denominata Freak-Beat, e formata da una miriade di gruppi che assimilano in maniera impazzita tutti gli stilemi artistici provenienti d’oltre manica, e che più di tutte le altre scene europee risulta ricettiva anche alle proposte americane più “difficili”. Molte di queste bands mutuano solamente lo stile del momento, altri cercano di contaminarlo con reminiscenze classiche… The Outsiders (spesso erroneamente confusi con gli omonimi di Cleveland) trasformano il loro sound, poderosamente bluesy degli esordi, in uno spiazzante affresco rock, ipoteticamente dipinto dal visionario Hyeronimous Bosch.
Nel 1968 la Polygram licenzia (in pochissime, introvabili, copie) l’epitaffio della band di Amsterdam, che solo una stagione dopo sarà implosa su se stessa, con il leader Wally Tax a cercare fortuna negli States con il progetto Tax Free. “C.Q.” è veramente un album completo, dove niente suona superfluo e dove ogni singola idea è perfettamente incastonata al punto giusto. “Misfit” inizia con un basso martellante che conduce e porta a compimento una cavalcata garage che parte dai 13th Floor Elevator ed arriva fino ai Radio Birdman, ma con una cupa atmosfera mittel-europea, che non abbandona mai il brano. “Zsarrah” è un folle ipotetico dialogo a tre fra Zappa, Captain Beefheart e Syd Barrett, con i Byrds che li adagiano sul loro morbido tappeto volante… e li trasportano nella title-track, in una non-dimensione profonda e dilatata, dove le onde del cosmo disturbano la frequenza del segnale proveniente da un’astronave alla deriva che meccanicamente ripete “Do you receive me…???”, fino all’esplosione finale. “Daddy Died On Saturday” suona come se Lou Reed, insolitamente lucido, eseguisse una composizione scritta a quattro mani da David Bowie e Donovan (ai più distratti ricordo che siamo solo nel ’68). “It Seems Like Nothing’s Gonna Come To My Way Today” è un dimesso esercizio bluesy, spogliato del calore dall’anima… campo nel quale i Faust avrebbero esplorato ogni possibilità, solo qualche anno dopo. “Doctor” è un perfetto esercizio di space-garage, che ci riporta sulla terra dopo un “Interstellar Overdrive”, futurista nell’intermezzo di musica concreta. “The Man On The Dune” è folk-core… i Dead Kennedy suonati dai Doors. “The Bear” è poco più di un minuto di western zingaro, che introduce il velocissimo hyper-blues di “Happyville”. “You’re Everything On Earth” è una morbida ballata che anticipa di una trentina d’anni le intuizioni di pop colto di bands come Galaxie 500, The American Analog Set o Belle And Sebastian. “Wish You Were Here With Me Today” esprime claustrofobicamente le visioni folk-lisergiche della psichedelica west-coast (Byrds e Love su tutti), mentre in “I Love You, No. 2” incastrano un assolo acido in un perfetto esercizio di easy-listening, notturno e nebuloso. Ma è nella finale “Prison Song” che riescono a fare l’impossibile, mescolando tutto e tutti in soli 5 minuti e 37 secondi di pura follia freak… anticipando il folk colto di Nick Drake e quello spostato di Barrett, che involve in quello psichedelico alla maniera di Country Joe o dei Kaleidoscope (USA) prima che un tremolo sinistro faccia esplodere tutto in una versione “core” di uno standard rock’n’roll, salvo poi con uno stop improvviso entrare nello spazio di una mini-suite kraut con un cuore che pulsa fino ad echi industriali di garage-blues. E qui siamo fuori… provati e felici.
Per onestà intellettuale e dovere di cronica, aggiungo solo che la bellissima ristampa Pseudonym del 2001 aggiunge 5 brani bonus, pescati fra i singoli del periodo e versioni alternative di brani contenuti nell’album.
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