Avevo già incontrato John Congleton, la mente folle che guida i Paper Chase dal '99, circa tre anni fa: io, pacioso, davanti alla TV nel mezzo della nottata, lui dentro, a guaire i suoi malsani testi in "Don’t You Wish You Had Somemore". Era il periodo di "Hide The Kitchen Knives" (LP del 2002) e quello era il singolo. Che titolo da squilibrato, pensai, da provare assolutamente. Ascolto il disco e non mi prende, siamo su due mondi diversi, troppo rumore forse (il suo)? O troppo buonumore (il mio)?

Passa il tempo, cambia lo scenario, cambia il disco, cambia il mio stato d’animo.
Periodo di melma, non ne va bene mezza, in uno dei rari momenti liberi che ho sono nel negozio di fiducia, mentre cammino con passo felpato tra gli espositori cercando il nulla, una copertina cattura la mia attenzione: un uomo senza testa seduto al tavolo di un bar. Non qualcosa di rivoltante o macabro, un istante di vita quotidiana ed il protagonista ritratto senza la testa. Chi si rivede: il pazzo, non ci penso un attimo e compro. Ed è quello di cui ho bisogno in questo momento confuso e statico, un'autentica scossa che mi risveglia dal torpore di "chi resta fermo immobile a fissare un filo reciso per sempre."

Laborioso - quanto forse inutile - definire i Paper Chase, dentro ci trovate noise e musica classica, i perfetti "incastri" tipici del math-rock, rumori di passi, sedie a dondolo che cigolano, motivetti simil-valzer; potreste sentirci la solidità e la precisione degli Shellac più minimali, quanto gli orpelli di certo progressive, una tempesta di suoni e clangore, ricca di tensione come i testi, vera peculiarità della band texana. Tutto perfettamente amalgamato dalle sapienti mani del Congleton produttore (90 Day Men, Explosions In The Sky), come il campionamento di un ronzio di mosca, ideale per creare l’atmosfera stantia di "Now, We Just Slowly Circle The Draining Fish Bowl", un raggio di luce "polverosa" filtra da una fessura ad illuminare Congleton, in un angolo, solo, a leccarsi le ferite I'll come back from the war, but everything i touch seems to break, and i won't be the same man, i won't be the same man you knew...
Sopra a questo baccanale, il pianoforte spesso preso letteralmente a martellate, oppure sinistro e saltellante come un diavoletto in "What I'd Be Without Me", ogni nota "pestata" corrisponde ad un gradino di quella vecchia scala che vi porta giù, nel seminterrato dei vostri pensieri più reconditi e ignobili: Dear diary, I've fear I've seen the things I've seen, say pretty please, 'cause God is listening, and We all fall in the big empty.
Raschia quella patina di orecchiabilità - o in un ipotetico paragone con l'essere umano: di finta perfezione - che c'è nelle sue canzoni, restituendo la melodia livida e tumefatta, rivoltandola come un calzino ed evidenziando quello che davvero si nasconde - e che noi difficilmente accettiamo - dietro alla agnelliana pelle splendida che tutti abbiamo. Un concept-album dedicato all'eterna dicotomia tra bene e male o più precisamente come si domanda Congleton: Ma davvero si fa del bene, per la sola idea del bene?. O si spera sempre e solo al compenso che si può ricevere in cambio?

Tutto trasuda pessimismo, dai testi alla musica, fino a copertina e libretto, dove fioccano le foto del decapitato automa e i testi, con la parola heart rigorosamente evidenziata e presente quasi in ogni canzone, come fosse l'unica ancora di salvezza. Apre il disco "Said The Spider To The Fly" con queste parole: I want your head, I want your wicked parts, I want to wring out your evil thoughts, I want to eat out your bitter heart. Una dichiarazione di intenti, o meglio, una promessa mantenuta. Saprò chi incolpare dunque se domattina scendendo le scale all'altezza del pianerottolo del primo piano, la Signora Maria - con il sorriso più falso che possiate immaginare - mi dirà: "Buona giornata!", dalla mia bocca uscirà un compulsivo e liberatorio "Mavaiafareinculo"

Cosa sarei senza di me?

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