E' opinione diffusa e condivisibile che ormai nella musica non s'inventa più niente. Chi si affaccia alla ribalta non può far altro che clonare un predecessore. Derivativo è forse l'aggettivo più usato per descrivere questo fenomeno. Alcuni ci riescono bene e anche se derivativi (ancora!) si fanno apprezzare, altri invece abortiscono progetti sconclusionati.
I Polyphonic Spree sono un esempio un po' atipico nel panorama musicale contemporaneo e non proprio riconducibile a qualcosa di ben definito. Vogliamo azzardare che sono una voce fuori dal coro? Esagerato, dire voi.
Forse è vero, però in questo momento non riesco a trovare un accostamento mirato per identificare la congrega freak-hippies partorita da quel pazzo di Tim DeLaughter.
Ideale prosecuzione dell'album di esordio, del quale ricalca le orme, il nuovo lavoro riparte proprio da lì, anche nel vezzo artistico di numerare la tracce dalla "section 11" alla "section 20".
Ventitrè (o forse più) elementi per un progetto ambizioso e pretenzioso che può anche far ridere e tacciarli di tronfia megalomania non può sembrare nemmeno troppo fuori luogo.
Si presentano in improbabili abiti messianici, sessi mescolati, e propongono una sorta di pop sinfonico melodioso con accenti musical-revivalistici.
Morbide linee pianistiche che improvvisamente esplodono in coro gioiosi, accompagnati da ottoni di ogni sorta, percussioni varie, archi e corde per ogni gusto, in una vera e propria baldoria polifonica.
Da un ascolto frettoloso si potrebbe ricavare anche un senso di noia, giacchè la costruzione armonica non ha troppe variazioni lungo tutti i 57 minuti dell'album. Una volta però immersi nel furibondo vortice di voci, cori e controcanti non sarà difficile uscirne affascinati. Non si può rimanere impassibili di fronte ad una canzone come Hold Me Now con un ritornello ai limiti della perfezione. Anche i brani più lunghi, e ce ne sono diversi, hanno uno sviluppo tumultuoso, fatti di pause e accelerazioni improvvise, che ne fanno un opera veramente unica nel suo genere.
Già! Ma quale genere?
Fate conto che i Beatles e gli XTC siano stati chiamati a musicare Jesus Christ Superstar. Oppure pensate ad un coro gospel in chiave moderna inserito in un happening teatrale.
Può essere uno di quei casi in cui, o si amano o si odiano.
Indovinate da che parte sta il recensore.
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