Piccola lezione di storia. I Pretty Things, chi se li ricorda? Si formano verso il 1963, dopo che il chitarrista e leader Dick Taylor ha fatto parte (per un brevissimo periodo) dei Rolling Stones. Nientemeno.
Balziamo al dicembre 1968, quando i nostri danno alle stampe il capolavorissimo "S.F. Sorrow", anticipando di qualche mese il nasone Townshend e scrivendo il proprio nome nella storia (che come si sa, è sempre restia a conferire gli onori sul momento: quelli verranno dopo). E arriviamo infine al 1969 e poi al 1970. In pochi mesi Taylor lascia, al suo posto arriva Victor Unitt dall'Edgar Broughton Band, e in qualche modo si va avanti.

I Pretty coltivano l'ambizione di un altro album a sviluppo concept, anche se le premesse sono tutt'altro che favorevoli e il tempo scorre veloce, soprattutto in quegli anni. Il rischio di essere datati ancora prima di buttar fuori l'album è concreto, insomma. E così, ecco la soluzione: un album per larghe parti acustico, non definito, elusivo sin dalla copertina. La trama è un po' l'atmosfera che si respirava in quegli anni, soprattutto nel dopo-Woodstock, una quiete pastorale a lenire le disillusioni per una battaglia che lentamente si stava sgretolando.

Pronti-via, e sembra di essere catapultati dentro "The Piper at the Gates", ma è solo un'illusione. Scene One ci conduce a presentare il protagonista dell'album, The Good Mr. Square ovviamente. Si parla della sua vita, da quando per la prima volta vede la sua amata (She Was Tall, She Was High) fino al primo incontro accompagnato da un sitar (In the Square) e alla triste presa di coscienza sotto la pioggia, che non si può vivere assieme in città. Ma era vero o era solo un miraggio? Ci troviamo davanti a un allegra fanfara di umanità, un susseguirsi di immagini: dagli abbagli di un circo che con  suoi clown promette spettacolo, ai pensieri su un possibile suicidio (Grass), fino al ritorno della misteriosa amata. Alla fine... non c'è conclusione: solo un paracadute temporaneo sulle sventure della vita.

E la musica? Si può dividere abbastanza coerentemente l'album in due parti, la prima acustica e non definita, la seconda elettrica e decisamente più aggressiva. Sembrano dei demo, delle mezze canzoni attaccate assieme, The Good Mr Square, She Was Tall She Was High, In the Square, The Letter, un po' alla moda dei Beatles di "Abbey Road" e del loro long medley maccartiano. D'altronde, indovinate dove fu registrato il tutto? Proprio agli Abbey Road Studios. Se girassimo poi il vinile troveremmo l'assalto frontale in forma blues di Cries From the Midnight Circus, seguito da divagazioni jazzate - Sickle Clowns, con una chitarra peraltro splendida - e inni corali à-la CSNY-meet-Beatles-e-insieme-si-mettono-a-suonare-il-prog che poteva esserci nel 1970. Su tutte spicca comunque Grass, splendida e accoratissima, comprensiva e addolorata, May ancora una volta protagonista.

Probabilmente il concept più sentito dei Pretty, dopo le sbornie psichedeliche di un paio d'anni prima. Sentito e a tratti confuso, anche se sentimentalmente pregno; Phil May più che cantare in alcune parti sembra declamare il suo dolore, vero o presunto che fosse. "Parachute" appartiente a quella categoria di album forse "minori", composti in un'epoca dove valeva lo sforzo di spendere dei soldi per un 33 giri, e i Pretty rientrano nello stuolo di quei gruppi che fecero grande il rock inglese, senza esserne consapevoli.

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