Vaglielo a spiegare a Jeffrey Lee Pierce che la prima volta che mi ritrovai tra le mani «Fire of love» il commento fu «Non male questi, assomigliano ai Primevals».
Che è un po’ come sentenziare «Non male questo Frank Sinatra, assomiglia a Michael Bublè».
E però, nonostante oda i primi sommovimenti sotto la fredda terra, il paragone non è per nulla blasfemo, se solo si invertono i termini; e fossi stato meno ignorante (allora, ora e sempre) sarei prorotto in un «Forti questi Primevals, assomigliano ai Gun Club».
Così rimaneggiato il discorso non fa una piega.
Chi fossero i Primevals ve lo racconto subito.
Per chi riesce a dare un senso a quello che scrivo, mi limito a dire che agli inizi di carriera (primi Ottanta) incidevano per la parigina New Rose: tanto basta ed avanza, perché questi bellimbusti, di certo, i Primevals li hanno accatastati in qualche recondito anfratto di quel che resta del microcefalo; per cui, è sufficiente una veloce spazzata alla polvere che opacizza i ricordi ed il gioco è fatto.
Per tutti gli altri, i Primevals venivano dalla perfida Scozia ed erano un gruppo rock-blues-beat che suonava tanto come i Gun Club, senza però quel senso di disperazione immanente in ogni loro composizione, al contrario con una solarità del tutto ignota a Jeffrey Lee e compagni. Solo che, per dire di quella figura retorica che mischia la parte ed il tutto e non me ne sovviene il nome, il cantante Michael Rooney non era Jeffrey Lee, per cui i Primevals non furono la luce, e se di loro avete fatto a meno fino ad oggi, continuate pure a dormire sogni paciosi.
Soltanto, peggio per voi, vi siete persi qualcosa, perché i Primevals del periodo ‘84-‘87 erano davvero una forza.
Ciò nondimeno, la fortuna aiuta sempre gli ignavi, e dal cielo piovve qualche anno fa «On the red eye», raccolta che mette insieme i primi due lp del gruppo, lo straordinario «Sound hole» ed il valido «Live a little», unitamente a contemporanei mini lp, ep, singoli e brani sparsi. Io, la raccolta, me la sono accaparrata da qualche giorno, per dare seguito alla musicassettina sulla quale era inciso «Sound hole» e che una decina di anni fa, dato il mortal sospiro, tirò pacificamente le cuoia, i nastri e tutto il resto: requiescat in pace.
E davvero dieci anni senza «Saint Jack» sono stati duri da affrontare. Perché, per quanto ho pogato su «Saint Jack», non esiste pari, né «Blitzkrieg bop», né «White riot», né altro. Trattavasi di pogo casalingo, ovvio, ché i Primevals dal vivo non li ho mai nemmeno sfiorati e nemmeno so se siano mai calati in queste lande, però sempre pogo era; ed anche adesso, quando parte quel riff, quando sul finire staccano brevemente batteria e chitarra e poi entra Michael a cantare «Saint Jack Saint Jack», la testolina si anima di vita fittizia e prende a muoversi su e giù, su e giù, su e giù, che è l’unico pogo che mi concedo di questi tempi grami.
Il riff di «Saint Jack» non si batte, ma invero tutti i riff dei Primevals ai tempi di «Sound hole» erano qualcosa di micidiale, con quella chitarra slide onnipresente e perennemente in tiro. E se andate in brodo di giuggiole per le sfuriate dei Gun Club, per brani come «Preaching the blues», «Ghost on the highway», «Sleeping in blood city», in «Sound hole» trovate pane per i vostri denti: «Prairie chain», «Primeval call» o «Dish of fish» sono difficili da dimenticare, una volta approcciati.
Per non parlare del poco canonico blues che sprizza fuori dai solchi di «See that skin», «Spiritual» e «Fire and clay»: qui è tutta elettricità per muovere le gambe a ritmi appena meno che frenetici.
Poche storie, «Sound hole» è uno dei troppi misconosciuti capolavori che affollano gli anni Ottanta.
Non è da meno la produzione sparsa altrove, con una menzione particolare per gli umori garage che infiltrano «Sister» e «She’s all mine», quella «Lonesome weepin blues» che suona New Christs al cento per cento non fosse per l’armonica e l’immancabile slide, al pari di «See the tears fall» con quel riff che prima o poi me lo ricordo dove l’ho già sentito, ed il percussivo martellamento di «Lucky I’m living», e qui hai voglia ad avere quarant’anni, ricomincio a pogare come il brufoloso moccioso che ero tanto tanto tempo fa.
Questo è puro rock’n’roll, niente di nuovo ma solo grandissimo rock’n’roll.
E se la natia Glasgow aveva partorito prima di loro giusto quell’Alex Harvey che si autoproclamava “sensational”, i Primevals – questi Primevals – quali iperboli magnificatorie avrebbero meritato?
Solo che, anche se ogni scarrafone è bello a mamma soja e i figli so’ piezz’e core, è ancora più vero che nessuno è profeta a casa sua, per cui in Scozia e nel Regno Unito praticamente nessuno si accorge di loro; e loro rimangono sul continente, coccolati da quei genialoidi della New Rose che stampigliano il logo pure sul secondo lp, «Live a little».
È un altro ottimo disco, meno di «Sound hole», ma al giorno d’oggi farebbe comunque gridare al miracolo.
Sempre di rock-blues si tratta, e stanno lì a testimoniarlo «All of the virtues» che, come la strumentale «Highway» e «Burden of the debt», viene fuori dritta dritta dal disco di esordio, le convincenti «Fertile mind», «Follow her down», «Bleedin’ black» ed «Early grave», ma soprattutto la splendida «Cotton head» e qui si torna ai Gun Club, quelli di «Miami» alle prese con «Run through the jungle»: un blues tribale che, ancora, gronda elettricità e pesta terribilmente duro.
Alla New Rose capiscono di avere in scuderia un gruppo con le palle quadratissime, onde per cui gli riservano un posticino nel celebrativo «Play New Rose for me»; e loro si mettono in testa, e la spuntano, di coverizzare «Diamonds, furcoat, champagne» dei Suicide. Impagabili.
E pure questa la trovate racchiusa dentro «On the red eye».
Acquisto obbligato, se di loro non avete né «Sound hole» né «Live a little», ma anche se li possedete entrambi. fosse solo per la goduria di vedere ancora una volta impresso su un disco il marchio New Rose.
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