Potrei iniziare questa recensione dalla fine: non c'è davvero niente da ascoltare qui, circolare prego. Nessuno si aspettava un capolavoro dai Prodigy dopo Invaders must Die, ma nemmeno un album così spudoratamente derivativo come The Day is My Enemy, un disco approssimativo anche dal punto di vista più insospettabile, quello tecnico. Liam Howlett ci ha sempre abituato piuttosto bene in passato, anche se continua ad avere il fiato corto quando non si affida alla manipolazione (geniale e indiscutibile) di campionamenti ritmici. Ma qui sembra più svogliato del solito, se si esclude qualche eccezione, confezionando un disco che a tratti suona terribilmente economico nei suoni (cheap, direbbero gli inglesi). Sul lato artistico invece la questione è molto più complessa. Pochi dubitano che l'ex ragazzino prodigio dell'Essex abbia i numeri, ma dopo la reunion con i compagni Maxim e Keith Flint proprio in occasione di Invaders Must Die, Howlett è rimasto definitivamente imprigionato nello stile a cui lui stesso ha dato vita, dovendo sostanzialmente realizzare lavori in studio funzionali alla salute della macchina Prodigy. Forse alla fine non è neanche questa gran condanna, dopo quasi 25 anni di contrasti tra pulsioni artistiche ed esigenze di botteghino si è deciso di dare pieno spazio alle seconde. Amen. Howlett ha promesso un concentrato di energia per questo disco, almeno sotto questo punto di vista non si può dire che abbia mentito.
L'intero album in sostanza è pensato per essere suonato dal vivo e non stupisce che contenga brani live già noti, come Rok-Weiler e Destroy, mentre è piuttosto spiazzante constatare come questi brani rendano meglio sul palco che nel proprio stereo. Sicuramente l'album meno "album" dei Prodigy, The Day is My Enemy è piuttosto una generosa (come quantità di brani), enciclopedica compilation che prosegue lo schema del precedente disco ma che si dimostra stavolta incapace di trovare la quadra tra la tradizione e il nuovo, anche a causa della scena radicalmente cambiata rispetto a sei anni fa. Tutti i brani sono estremamente semplici e stiracchiati su poche idee ripetute all'infinito, non a caso è difficile che superino i quattro minuti, poche le sorprese e quasi tutte relegate a meri ornamenti. Le stesse performance vocali di Maxim e Keith si disperdono tra i suoni, non risultando particolarmente necessarie né giustificate. Il cuore del disco è rappresentato dalla title track, Wild Frontier e Nasty, non a caso già singoli e intrisi di un micidiale déjà vu. Per ogni traccia torna in mente un corrispettivo del catalogo prodigioso, ma col tremendo retrogusto della cinica speculazione prima di un costruttivo autocitazionismo.
Scendendo nel dettaglio, lascia interdetti come Howlett sia ossessionato dalla soluzione ritmica di Firestarter, sicuramente uno dei suoi massimi capolavori, va bene, ma riproporla pedissequamente in Rebel Radio e parzialmente nella stessa Nasty assottiglia il confine tra richiamo nostalgico ed esaurimento di idee. In Get Your Fight On assistiamo all'esasperazione del concetto, essendo un remake di Take me to the Hospital dal precedente disco. E ancora. Continuano le partecipazioni con artisti di grido per sdoganare il sound ai più giovani, questa volta è il turno di Flux Pavilion, che sale sul ring per la tamarissima Rhythm Bomb. Inspiegabilmente anche per questa è impossibile non pensare a Warrior's Dance per l'utilizzo dei sample vocali anni '90, solo con un risultato globale decisamente meno gradevole. Più interessante si rivela Ibiza, realizzata insieme agli Sleaford Mods, che aggiunge stramberie punk in linea con le (sporche) corde del gruppo, anche se, manco a farlo apposta, come sonorità sale qualche ricordo di troppo dei tempi di Always Outnumbered, Never Outgunned. Vabbè.
Un altro elemento fastidioso del disco è la presenza regolare dei sample etnici tanto cari a Howlett, ma sempre più fuori luogo, specie in Rebel Radio e Medicine. Siamo d'accordo che in questo aspetto si va molto a gusti, ma le trovo divagazioni-filler fine a se stesse quanto fastidiose, non avendole mai troppo apprezzate neanche ai tempi di The Fat of The Land. Un problema mio. Eppure nei solchi di questo lavoro toy rave punk meccanico-alimentare si riesce a trovare anche degli spiragli di luce, come la gradevole Invisible Sun, quasi alla ricerca di una vena pop british, Beyond the Deathray e la chiusura rappresentata dalla caciarona Wall of Death, forse gli unici esponenti che riescono a stabilire un naturale e onesto contatto con l'era di Experience e Music for the Jilted Generation. Quei tempi però sono ormai tramontati, i Prodigy hanno ormai smesso di scatenare quel frizzante senso di meraviglia e preferiscono limitarsi a un intrattenimento low cost, suonando come la parodia di se stessi. Peccato, anche se la cosa non impedirà alla folla sottostante di scatenarsi. La recensione è stata scritta da un fan di vecchia data del gruppo, che utilizza The Day is my Enemy per andare a correre, dopotutto.
Carico i commenti... con calma