Nell’afosa estate del 2005, in un attico di Nasville, gli amici Jack White e Brendan Benson compongono insieme un brano.
Jack White è già una superstar consacrata: “Elephant”, il capolavoro dei White Stripes, è uscito da due anni ed il succcessivo “Get Behind Me Satan” ha certificato la fama del duo di Detroit. Benson invece è un cantautore di Royal Oak, con all’attivo già tre album in studio. Da quella session improvvisata nasce il capolavoro “Steady, As She Goes”, pezzo pazzesco che diverrà la punta di diamante del primo album dei Raconteurs, band messa su dall’improvvisato duo assieme alla sessione ritmica dei Greenhornes.
Dopo due dischi ed altrettante nomination ai Grammy, la band va in pausa indefinita fino a quest’anno, quando arriva la pubblicazione di questo terzo lavoro battezzato “Help Us Stranger”, e sembra che niente sia cambiato da allora (sono passati undici anni dal secondo disco “Consoler Of The Lonely”).
I Raconteurs rimangono il mezzo attraverso il quale White incanala e dà ordine al proprio talento debordante ed imprevidibile (esploso completamente l’anno scorso nel meravigliosamente caotico “Boarding House Reach”), e la commistione con il talento cantautorale di Benson crea una mix letale ed irresistibile. Quello dei Raconteurs è un classic rock senza tempo, al quale solo la classe dei due interpreti impedisce di scadere in uno scontato revival in salsa settantina.
“Help Us Stranger” è un disco strepitoso: undici inediti e una cover (il secondo singolo “Hey Gyp (Dig The Slowness)”, rifacimento di un pezzo di Donovan) che pescano a piene mani dalle grandi passioni di White e Benson, in un irresistibile frullato che non si fa mancare chitarroni fragorosi (“Bored And Razed”, “Sunday Driver”, “Live A Lie” - quasi grunge - e la pazzesca “What’s Yours Is Mine”) affiancati a prelibatezze acustiche ove la mano di Brendan Benson è sicuramente più calcata (“Help Me Stranger”, “Only Child”, “Thoughts And Prayers”). C’è (ovviamente) anche il blues, ma ben dosato e distribuito lungo tutta la (compatta) scaletta dell’album.
Un gran disco, che riconcilia con la tradizione e ripropone una delle collaborazioni meglio riuscite negli ultimi venti anni di rock americano.
Brano migliore: “What’s Yours Is Mine”
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