La mia professoressa di educazione musicale delle scuole medie diceva che la musica si compone di 4 elementi: melodia, ritmo, armonia, timbro. Ora: pensate a cose succede quando qualcuno decide di molestare non uno, ma tutti e quattro contemporaneamente questi elementi.
 
Mayo Thompson ha fatto la storia del rock sperimentale. Avrebbe potuto vivere di rendita dopo aver concepito e realizzato, in un 1967 tanto lontano da parer quasi provenire da un'altra dimensione, quell'apoteosi psichedelica che prese il nome di "Parable Of Arable Land". Quel disco non era un semplice tributo alla cultura dei freak, ma andava oltre. Quell'oltre era un nuovo modo di concepire la musica rock; quel modo era lo stesso (scienficamente anarchico) che sarebbe stato alla base dei capolavori dei Faust, dei Chrome, dei Butthole Surfers, dei Royal Trux: blocchi di fracasso impacchettati e dislocati a piacimento con l'ausilio (insostituibile) dell'elettronica e di tutti i magheggi a disposizione nello studio di registrazione.

Mayo Thompson non si è accontentato di quel monumento dell'avant-rock. Ha voluto dire la sua anche una decade dopo, finita da tempo la sbornia della summer of love, cambiate per sempre le persone e la loro visione del mondo, e quindi cambiato il mondo stesso. E' incredibile come un Maestro della psichedelia anni 60 abbia saputo dire la sua anche quando, a dettare le coordinate della ricerca musicale in campo rock, era gente come i Pere Ubu. "Soldier Talk", uscito nel 1979, ha la medesima ispirazione e soprattutto il medesimo fervore innovativo dei secondi Ubu, quelli astratti e indefinibili di "New Picnic Time" e "Art Of Walking", opere coeve a "Soldier Talk" e non solo: praticamente in quel periodo Red Krayola e Pere Ubu erano una cosa sola, visto il reciproco prestito di musicisti e di idee.

Tuttavia, resto dell'opinione che "Soldier Talk" sia stato, con troppa sufficienza, bollato come un disco "alla Pere Ubu", quando in realtà si avvertono alcune importanti differenze con l'estetica di David Thomas e compagni: i Red Krayola erano molto più scabri a livello di sound e le referenze di "Soldier Talk" esulano spesso dall'universo ubu-iano. Non è difficile infatti scorgere, nelle contorte trame che caratterizzano gli undici concisi pezzi di questo disco, richiami alla Canterbury più sregolata (Soft Machine) e meno soffice (Henry Cow), così come in "Letter-Bomb", un balletto sghembo, sferzato da continui cambi di rotta, in cui il ritmo è in perenne assestamento, riemergono suggestioni del progressive più febbricitante, dai Van Der Graaf Generator ai Gong, e della new-wave più cerebrolesa (Devo). D'altra parte, non si possono trascurare le parentele con la no-wave della Grande Mela, l'ala radicale dei Mars e dei DNA, quando non degli Half Japanese.
Ma l'ispiratore principe dell'opera resta uno solo: Donald Van Vliet, quello della seduta psichiatrica di Trout Mask Replica. Come quella di Van Vliet, anche quella di Thompson è musica ostile ad ogni catarsi emotiva, musica fertile e rigogliosa di idee volte (paradossalmente) ad esprimere il più sconcertante sentimento di aridità, la lucida radiografia di una mente incapace di rapportarsi "normalmente" con il mondo esterno.

D'altra parte, le analogie coi Pere Ubu seconda maniera sono innegabili: "Discipline", tutta graffi e squittii, contesa fra i picchettii petulanti della chitarra e i falsetti ostinati dell'ospite David Thomas, rimanda all'incredibile "Birdies", che comparirà l'anno seguente su "Art Of Walking"; lo stesso Thomas fa capolino, psicotico, nel thriller minimalista della title-track, un conciliabolo di voci in preda al delirio, una foresta di folletti maniaci alla stregua di quelli che popolavano le scenografie surreali di "New Picnic Time"; "On The Brink" attacca esattamente come "Go" dei Pere Ubu, ma poi cambia rotta e diventa un incrocio proibito fra una parodia dei Talking Heads (e in effetti la voce inimitabile di Mayo Thompon è una specie di David Byrne in acido) e una brillante anticipazione di quello che, qualche anno più tardi, sarebbe stato il suono di Steve Albini. Sì, proprio lui. Non solo noise-wavers come Levene e Howard tra gli ispiratori del genio di Chicago, ma anche il "vecchio fricchettone" Thompson. E la cosa non sorprende, visto che Thompson nel '79 aveva oramai asciugato ogni liquame lisergico, pervenendo ad un suono torvo, aspro, scordato, in bilico fra Jeff Cotton, Thomas Herman, Arto Lindsay e Robert Fripp, capace di inerpicarsi nei contorsionismi più disumani come di persistere crudelmente sullo stesso tasto per tutto il brano. Mai sentita una chitarra più stronza di quella che perfora "X", forse il riff più sgradevole che abbia mai udito: ne esce il surf-rock più trasfigurato di sempre, manna dal cielo per il futuro autore di "Colombian Necktie".

 Ma non finisce qua: la vena sperimentale del disco non si ferma al contributo di Thomspon. Qua e là, fiati e tastiere free-form irrompono in maniera dolcemente molesta a straniare un'atmosfera già surriscaldata di suo. Ma ancora più significativo è il contributo della sezione ritmica, capace di sciorinare sapientemente tempi dispari, fratture, sincopi, break inattesi, percorsi impensabili: il connubio tra un garbuglio di corde dissonanti e una ritmica rocambolesca porta "Soldier Talk" paurosamente in zona Slint. "Uh, Knowledge Dance", con quel giro di chitarra schiaffeggiato da una parte e dall'altra, e "March No. 12", con quei continui smottamenti, non sfigurerebbero in "Tweez", mentre la suspence evocata dall'unico accordo reiterato di "An Opposition Spokesman" è la stessa di Don Aman.

Disco della nevrosi, dell'inadeguatezza, dello sconcerto, tanto più comico quanto più inquietante (vedasi gli 80 secondi di cabaret da incubo di "March No. 14"), "Soldier Talk" ha avuto il merito di essersi spinto brillantemente oltre i confini, apparentemente larghi, della new-wave, finendo in territori oggi non ancora del tutto battuti.

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