Chi ha seguito le gesta ciclistiche all'inizio degli anni 90, ricorderà certamente il broncio malinconico e strafottente di Gianni Bugno. Uno degli astri più abbaglianti, completi e discontinui nella storia recente delle due ruote. Uno che quando la strada si impennava sotto le ruote "pedalava sul velluto", per dirla col compianto De Zan: vincitore due volte nella montagna di Coppi, l'Alpe d'Huez (come solo Pantani e Armstrong dopo di lui) ma che in altri tapponi riusciva ad arrivare al traguardo con Cipollini e gli altri velocisti. Uno che vinceva a mani basse mondiali e grandi classiche in volata, permettendosi il lusso ( e il rischio) di esultare a 5 metri dal traguardo nonostante i suoi avversari fossero serpenti come Indurain, Jalabert o Museeuw, ma che altre corse le ha perse contro peones quali Jaermann o Gianetti. Un eroe romantico fondamentalmente, un Ettore che ebbe la sfortuna di incrociare le lame con l'imbattibile Achille delle corse a tappe, Miguel Indurain. Il Navarro imperscrutabile, una maschera enigmatica nascosta sotto il cappellino bianco Banesto e gli occhiali scuri da hidalgo, che in salita attaccava una cordicella invisibile alla ruota di Gianni, per poi bastonarlo inesorabilmente a cronometro e concedere finalmente un sorriso, avvolto in giallo, sui Campi Elisi.
Per chi ama fare paralleli tra musica e sport, non si può non paragonare Bugno a Paul Westerberg. Li accomuna la medesima faccia da schiaffi, il talento squillante (la facilità di pedalata e la postura in sella di Gianni trovano contraltare nel virtuosismo melodico del leader dei Replacements), la sregolatezza con cui hanno gestito il proprio estro (Gianni sovente scellerato nel leggere la corsa, Paul autore di una carriera solista non all'altezza del proprio palmares) e soprattutto una congiuntura temporale sfavorevole per entrambi. Per Bugno parla la nemesi navarra, per Westerberg l'essere oscurato da Stipe e Mould, arrivando oltretutto in anticipo all'appuntamento con l'esplosione dell'indie rock, non riuscendo a salire sul bus di "Nevermind" dato che il suo talento si era ormai dissanguato.
"Pleased to meet me" è tra i trofei più preziosi nella bacheca di Paul Westerberg. L'album realizzato da factotum dopo la cacciata di Bob Stinson, il tassello finale in cui la strada tracciata da "Hootenanny", "Let it Be" e "Tim", sfocia nel mosaico di un post-punk adulto, classico e maggiormente confidente con una scrittura fluida e personale, come i coevi album major dei cugini Hüsker Dü. Siamo così di fronte a un eclettico muro del suono del power-pop, undici schegge cangianti di spleen adolescenziale, autentica miniera d'oro per una generazione di alternative rockers nel decennio successivo. La perdita delle ustioni stinsoniane alla sei corde è mitigata dalla produzione di Jim Dickinson, già dietro la consolle coi Big Star: il nativo di Memphis dilata il tessuto sonoro dei Mats, arricchendolo con soluzioni quali tastiere o sax ( fino a lambire il jazz in "Nightime Jilters" ) che arricchiscono il canzoniere di un Westerberg in stato di grazia, senza perdere in tensione e credibilità.
E che la band di "Third/Sister Lovers" sia l'eminenza grigia dei Mats versione 1987 lo si evince del resto dalle irresistibili armonie di "Alex Chilton": omaggio a Sua Maestà del power pop, la cui ombra si estende pure nel pastiche r&b di "I Don't Know" e in quella "Can't Hardly Wait" (occhio ai fiati!) in cui è ospite proprio l'autore di "Thirteen". Per non parlare di "Valentine", rallegrata dal calore bianco di un organetto delizioso e da un Westerberg mai così sensuale ( Evan Dando avrà prestato parecchi ascolti). I Replacements più tradizionali affiorano nei riff stonesiani, al curaro, dell'iniziale "I.O.U.", nel prepotente nitore di "Never Mind" e nei consueti assalti da teppistelli: "Red Red Wine" e l'aspra "Shooting Dirty Pool", gli unici in cui la contumacia di Bob si faccia invero sentire.
E poi due diamanti lucenti nel canzoniere dell'ormai ex kid del Minnesota. "The Ledge", asfissiante anticipazione dei marosi esistenziali anni 90. Le chitarre secche come colpi di frusta, la sezione ritmica martellante e ipnotica, e un Westerberg a fil di gola nell'affrescare uno spaccato di teenage angst affilato come un filmato di Gus Van Sant. E la morbida e fatalista ballata jingle-jangle "Skyway", ideale conclusione della triade "Byrds vs Velvet Underground" aperta dalle "Sixteen Blue" e "Unsatisfied" nel capolavoro "Let it be". Ma allora c'era ancora Stinson ad affrescarne le forme con oscuri e disperati presagii. Qui Paul è solo - giusto un filo di mellotron aggiunto da Dickinson fluttua come vibrazione celestiale - oltre la cupa skyline di Minneapolis, dove "It don't move at all like a subway/ It's got bums when its cold like any other place/It's warm up inside".
In fuga verso la vetta, come Gianni Bugno.
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