Recensire i Replacements è difficile quanto recensire i Sex Pistols o i Nirvana.

Difficile per il sottoscritto, abituato a dare spazio all’analisi tecnica dei brani a scapito della componente “emotiva”. Non che le canzoni dei Mats (così ci piace chiamarli) siano prive di interesse dal punto di vista formale, ma pare evidente che la loro fantasia compositiva e la loro eleganza esecutiva fossero sempre subordinate alla comunicazione di sentimenti forti, intensi, immediati. Come Sex Pistols e Nirvana, i Replacements privilegiavano la sostanza, il contenuto.

Il loro immaginario non era dissimile da quello di molti altri compagni di avventura, alle prese con la necessità di esprimere le gioie e i dolori della gioventù americana del loro tempo (anche se la grandezza di questi gruppi va ricercata nell’universalità del loro messaggio): Adolescents, Descendents, Husker Du, Soul Asylum, Lemonheads sono solo alcuni dei gruppi che contribuirono a compiere il fatidico passo dall’hardcore all’indie, nel cuore degli anni 80, spostando il fulcro dell’interesse dalla dimensione pubblica a quella privata, dalle problematiche sociali a quelle esistenziali, dal pessimismo storico a quello cosmico, dalla rabbia alla rassegnazione, dall’azione alla contemplazione. La parte più superficiale della critica è solita spacciare i Mats come il gruppo gemello degli Husker Du (venivano entrambi dalla fredda Minneapolis), ponendo le due band a capo di un fantomatico filone “pop-core” . Facciamo un pò di chiarezza: non c’è un solo modo di unire pop (melodia, orecchiabilità) e hardcore (rumore, velocità). C’è la maniera californiana (Bad Religion, Descendents, Adolescents, Pennywise), quella Chicago-ana (Naked Raygun, Pegboy, Screeching Weasel), quella newyorkese (Ramones, Misfits), quella di Minneapolis (Husker Du, Replacements, Soul Asylum) e così via… E pure all’interno delle stesse scene locali, vigevano molte differenze.

Tra tutte queste band, i Replacements si rivelarono i più tradizionalisti: i loro modelli andavano da Chuck Berry ai Rolling Stones, dai Big Star ai Kiss. Il rock della vecchia guardia, rivisitato con malinconia rovente. Ci ho messo un pò ad apprezzare “Tim”. Ai primi ascolti mi lasciò perplesso: lo trovavo troppo scontato in alcuni momenti, troppo sdolcinato in altri. Ancora oggi, se devo cercare un difetto nella band di Westerberg, lo trovo nei brani più passivamente revivalisti, più calligraficamente ripropositori del chiassoso rock’n’roll anni 50, quello dei vari Little Richards e Jerry Lee Lewis: “Dose Of Thunder” e “Lay It Down, Clown” (come “Gary’s Got A Boner” dal precedente disco “Let it be”). Preferisco i Mats quando hanno saputo dare una nuova veste al rock’n’roll, adattandolo all’umore affranto e disperato degli anni 80. Ad ogni modo, dopo l’iniziale indifferenza, mi innamorai di questo disco. E non poteva essere altrimenti: “Tim” colpisce dritto al cuore e ogni suo ascolto scatena una serie di piccoli movimenti dell’ animo, di palpitazioni, di brividi e di ricordi.

Impossibile non visualizzare, dinnanzi ai fremiti di “Kiss Me On The Bus” o alla trance di “Hold My Life”, scene di vita liceale, appartenenti ad un passato più o meno recente (nel mio caso): viene così spontaneo parlare di “college-rock” per definire in qualche modo la musica dei Replacements. Sono brani in cui la band (formata da Westerberg, Mars e i fratelli Stinson) accompagna le confessioni del leader con delicati ricami strumentali, serpentine che si intrecciano convulsamente, tessiture dal sapore onirico, che paiono riprodurre l’andirivieni dei pensieri che affollano la mente di Westerberg; pensieri, dubbi, reminiscenze, entusiasmi, inquietudini che vengono trasmessi all’ascoltatore con un’efficacia unica. Per gran parte del disco, regna questo clima di sospensione, incanto, magia. Per quanto azzardato possa apparire questo accostamento, “Tim” pare talora una rievocazione di “Pet Sounds”, col quale condivide l’umore dolce-amaro.

Ho una mia teoria: Buddy Holly/Brian Wilson/Alex Chilton/Paul Westerberg, uno per decennio, a formare la tetrade dei rocker intimisti-adolescenziali. Come non pensare all’introverso e sensibile Buddy Holly di fronte alla gioviale filastrocca acustica di “Waitress In The Sky” o ai capogiri del rockabilly di “I’ll Buy” ? E come non avvertire il magone del Brian Wilson dell’ età matura, una volta immersi nella nostalgia infinita di “Swingin’ Party” ? “Bring your own lampshade, somewhere there’ s a party/Here it’ s never endin’ , can’ t remember when it starded” , cantata con tono sommesso, e poi, in un repentino ed illusorio sussulto, “If bein’afraid is a crime, we hang side by side/At the swingin’ party down the line” … ecco, l’effetto è quello di una festa di fine estate, vissuta in disparte, con un drink in mano che fà fatica ad andare giù, e la testa da un’altra parte… oppure, è come vedere dall’esterno la scena romantica di una “Don’t Worry Baby”, con Westerberg a dimostrare che, ad un animo tormentato come quello di Brian Wilson, i Beach Boys stavano davvero stretti…

Ma non c’è solo commiserazione, sofferenza, rimpianto in “Tim” : c’è spazio anche per la rivalsa, per lo sfogo, per l’urlo catartico, come quello che apre “Bastards Of Young”, uno dei capolavori misconosciuti del rock anni 80 (al pari di “Girl Who Lives On Heaven Hill” degli Huskers). Un inno, di quelli da cantare a squarciagola, col cuore in mano e a testa alta. “God/What a mess/On the ladder of success… We are the sons of no one/Bastards of young” : con queste liriche, Westerberg riprende in mano il suo destino, scioglie le briglie alla sua ugola roca e dà vita ad un inno generazionale, non distruttivo come “Anarchy” ne’ auto-distruttivo come “Smells Like Teen Spirit”, ma vitale, energico, rigenerato, sia pur col consueto velo di disperazione ed amarezza.

L’ultima parte del disco prosegue all’insegna di un vivido power-pop, coi sospiri di “Left Of The Dial” e col tuffo al cuore di “Little Mascara” (“You and I/fall together”), prima della ballata conclusiva, quella “Here Comes A Regular” che molti considerano addirittura il capolavoro di Westerberg, ma che a mio parere non vale quanto una “Swingin’ Party” o quanto le tre grandi ballate di “Let it be” (“Androgynus”, “Unsatisfied”, “Sixteen Blue”): resta comunque, nel suo accorato classicismo springsteen-iano, un degno finale per un disco da annoverare tra le più emozionanti esperienze musicali degli anni 80.

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