Che ricordo rimane oggi, a più di dieci anni dalla sua pubblicazione, di questo controverso album dei Rolling Stones? Le opinioni riguardo "Bridges To Babylon" sono sempre state diverse e contrastanti. C'è chi lo giudica un lavoro piuttosto insoddisfacente e deludente rispetto al precedente "Voodoo Lounge" disco, quest'ultimo, ricco di grandi canzoni, ottime performance (ascoltate "Suck On The Jugular") e con un bel suono fresco. Altri lo considerano benevolmente come una vera svolta nel sound del gruppo, un'opera di moderno rock'n'roll. Diciamo pure che, anche in questo caso, la verità probabilmente è giusto a metà strada.

Certo che la copertina esagerata, raffigurante l'immagine del dio babilonese Baal, non nasconde un'esasperata tendenza alla megalomania, aspetto che negli ultimi anni la band ha mostrato di gradire allestendo tour con palchi faraonici. Ma fortunatamente gli Stones sono sempre gli Stones e a loro si perdona tutto perché l'esperienza, la classe e la loro attitudine musicale resterà ineguagliata nei millenni a seguire.

"Bridges To Babylon" è comunque un'opera discretamente riuscita che ha il merito di crescere alla distanza, come quasi tutti i dischi degli Stones post "Exile On Main Street". La produzione del veterano Don Was è molto attenta a far risultare le caratteristiche tipiche della band. Il suono è a tratti pulito, troppo perfettino ma, fortunatamente, non mancano episodi dal sound più sporco e cupo. Il lavoro di mastro Keith Richards è sempre indispensabile e sono le sue impennate d'orgoglio che elevano la qualità del lavoro. Bastano un suo riff, un suo sussurro o un groove di quelli giusti per far perdonare al gruppo anche gli scivoloni più evidenti. La partenza bruciante di "Flip the Switch" con il suo rock tirato e scarno destinato a far scintille dal vivo, è tutta farina del suo sacco. La seguono sugli stessi binari la graffiante e canonica "Low Down" e la corsa a rotta di collo di "Too Tight" con un Ron Wood in gran spolvero. Keith regala persino, all'interno dell'opera, tre personali esecuzioni vocali dove personalmente mi ricorda non poco lo stile di un Tom Waits intriso di soul e bagnato dal Jack Daniel's. Il Pirata non avrà una gran voce ma, quando Mick Jagger gli cede il microfono, getta via la milionesima sigaretta e inizia a cantare, l'emozioni sono sempre garantite. L'anima degli Stones non tradisce mai. Nelle sue tre performance, il chitarrista ci porta in Giamaica con il reggae rilassato di "You Don't Have To Mean It", ci insegna cos'è un pezzo low-fi con "Thief In The Night" e ci commuove con la malinconica "How Can I Stop", cullandoci nel finale.

Jagger, da parte sua, va sul sicuro con brani di assoluta presa come le romantiche "Already Over Me", "Always Suffering" e il gospel-rock facile di "Saint Of Me". Niente di trascendentale ma tutto, alla fine, risulta dannatamente piacevole. Tra i pezzi si fa ricordare piacevolmente anche "Out Of Control" un voodoo rock pulsante, ossessivo, notturno, con un ritornello incalzante e una parte musicale coinvolgente. Più o meno della stessa sostanza è la dura "Gun Face" con un testo cattivo e con un muro di chitarre dissonante e a tratti pesante. Su "Might As Well Get Juiced" e la sua ricerca tecnologica voluta in fase di produzione dai Dust Brothers, è meglio sorvolare così come sul primo singolo estratto dal disco, quella "Anybody Seen My Baby?", una ballata black che a molti è sembrata una furba ed involontaria riscrittura di un pezzo di K.D.Lang, "Costant Craving". Un brano forse più adatto alla pubblicità di un aperitivo che ai locali blues o alle arene rock.

Il ricordo che resta oggi di quest'opera è quello di un disco certamente riuscito ma, a tratti, dal suono patinato e troppo elaborato. Non tutte le canzoni sono all'altezza della fama del gruppo ma, come in ogni loro lavoro degli ultimi trent'anni, gli Stones riescono ad infilare quei cinque brani che fanno la differenza e che altri giovani band possono solo sognarsi di comporre. Inferiore a "Voodoo Lounge" e all'ultimo "A Bigger Bang", "Bridges To Babylon" mostra con fierezza un leone in copertina. Un leone però che in alcuni momenti stenta a dare la zampata vincente e che a tratti graffia con poca convinzione. Convinzione che il gruppo ritroverà brillantemente durante il massacrante tour che seguirà l'uscita dell'album e che terrà occupati i Rolling Stones per quasi due anni.

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