Ormai ritenuto tra i migliori album della (seconda) più grande rock'n'roll band di sempre, "Exile On Main Street" venne salutato alla sua uscita da pareri contrastanti e non troppo calorosi.
La sua atmosfera densa, in un doppio album gelatinoso e scuro, al primo ascolto sembrò e sembra definibile come un'opera ostica, quasi troppo uniforme per poterci catturare con le sue ragnatele senza lasciarci per un attimo contrariati. Contrariati per non riuscire quasi a capire al primo ascolto la forza di questa musica. Come riesce a divorarci.

Sì, è il "solito" r'n'r-blues-country-soul che i nostri hanno portato in superficie col magistrale “Beggars Banquet” (1968) per poi svilupparlo nei precedenti lavori dell'epoca Mick Taylor. Ma sono la sostanza e il modo di presentarla che qui cambiano meravigliosamente. Gli Stones hanno terminato definitivamente il loro apprendistato di nuovi profeti dell'hard-blues, non devono più temere di essere ascoltati dagli scettici come un surrogato di qualcosa che non sono, ma che stanno sforzandosi di essere. La band è veramente cambiata, il beat and roll degli esordi, gli sperimentalismi allucinati e le sognanti liriche da flower power di Brian Jones se ne sono andate per sempre. Qui, in un esilio che sa più di approdo, sulla "via maestra", ci stanno quattro giganti che suonano nel modo più libero e naturale possibile.
Quel che a noi sembrano superficialmente diciotto oscure canzoni da punto interrogativo sono una serenità a inchiostro simpatico per la ditta Jagger-Richards. I ragazzi ora sono degli uomini, splendidi trentenni che sembrano aver imparato ogni lezione. Ora si rimane la sera a fare jam con gli amici, birre, amanti e profumo di un'America lontana, quella di Robert Johnson o di Muddy Waters, quella che vende l'anima al diavolo per un po' di ottima musica.

Gli Stones riducono la strumentazione al minimo, chiamando soltanto qualche amico come l'onnipresente Billy Preston (che conferisce col suo organo una credibile spiritualità gospel a un'incredibile ballata come "Shine a Light"), Bobby Keys e Jim Price come al solito ai fiati e Nicky Hopkins al piano. Ancor più rabbioso e sincero del precedente "Sticky Fingers", Exile dopo ripetuti ascolti comincia finalmente a svelarsi nella sua grandezza, che sembra tutta improvvisata, giocosa, inconscia.
Le tracce si susseguono senza perdere tempo, ogni secondo è importante, e in poco più di un'ora ci viene presentata una fumante zuppa country-blues da cui dobiamo solo pescare. Pezzi devastanti come "Rip This Joint", armoniche evocative che traducono fantastici racconti sulla mitologia del Mississipi ("Ventilator Blues", "Shake Your Hips"), rilassati inni acustici anti-razzisti ("Sweet Black Angel"), hit singles con puri riff richardsiani come le indimenticabili "All Down The Line" e "Tumbling Dice".
In piccole dosi possiamo trovare tutto ciò per cui amare questo gruppo, dalle svogliate ma riuscitissime cantilene di Keith (vedi "Happy") a sognanti rimandi psichedelici ("Let It Loose") amplificati dagli impeccabili assoli di Taylor, essenziale ma indispensabile su ogni registro. Jagger dal canto suo sembra seppellito da questa esplosione di vita lo-fi, ma non è così: è il filo rosso di questo complesso puzzle sonoro e umano (reso esplicito anche dalla copertina), è il cantastorie che sta nella penombra solo per svelarci più profondamente, col tipico sguardo aggressivamente delicato, il suo mondo, ciò che era e ciò che è diventato.
Sotto questo groviglio di cuori, melodie che già puzzano di intramontabile, risplendono ancora i nostri idoli e la granitica immortalità della loro musica, della nostra musica.

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