È il 1969 quando il genio musicale di Brian Jones lascia questo pianeta, chiudendo un capitolo aureo per la band che aveva fondato con tanta dedizione e passione. Il saluto dei suoi compagni/colleghi non fu tra i migliori, ma dopotutto Brian stava dando parecchi problemi alla sanità del gruppo, e questo pesava a tutti, dalla casa discografica fino agli ascoltatori. Dopo aver chiuso il decennio, quello più fortunato e autentico delle famose pietre rotolanti, con un lutto, un concerto tanto discusso e poco godibile in onore di Brian e con "Let It Bleed", che per qualche strana coincidenza strizza l'occhio ai loro storici rivali, che nel frattempo erano in rovina (se così possiamo chiamarla), la "nuova" band con a capo Mick Jagger approda ai '70, e lo fa in grande, lanciando in pasto alle genti, nell'aprile del 1971,un paio di jeans, spudorati, provocatori, forse per qualcuno addirittura molesti, ma estremamente ispiranti, che fanno da copertina a "Sticky Fingers", icona della musica Stoniana, non per tutti evidentemente. Andy Wahrol, che aveva già lavorato nell'ambito musicale con i Velvet Underground solo qualche anno prima, si presta anche per la posa di questo misterioso figurino, che probabilmente privo di slips (anche se, aprendo la zip inserita nel cartoncino, gli slips ci saranno eccome, e anche belli autografati) lascerà il segno nella cultura pop. Sono gli anni '80 quando Springsteen pubblica "Born in the USA", copertina originale no? Per non parlare di "Mamma mia" dei "nuovi" Maneskin, che mentre scrivo questa recensione staranno cantando da qualche parte del globo osannati senza un vero motivo, o forse sì. La campagna pubblicitaria non fu indifferente, i cinque che posavano con un bel paio di pants, Keith ovviamente di spalle a mostrare il lato B, potevamo aspettarcelo, sembravano entusiasti di quanto appena realizzato. Fu anche la prima volta che la linguaccia filowarohliana (neologismo) si presentò, proprio nella inner sleeve del disco. Ma forse quell'entusiasmo durò poco, perché l'alone di indifferenza che si creò attorno a questa opera mi lascia non poco indignato. Indifferenza, sì, perché "Sticky Fingers" non ha (mai) avuto i giusti riconoscimenti, a parte il grande successo iniziale. È l'arrivo in America della band (simbolico, ovviamente), il disco che più di tutti riassume in 10 canzoni il rock sporco degli Stones. Eppure ad oggi non è presente neanche un brano di questo nel tanto pubblicizzato "Sixty Tour", ma questa è un'altra storia. Sembra che gli stessi componenti del gruppo non lo amino particolarmente, sarà il nuovo decennio, sarà il nuovo chitarrista, che qui per la prima volta (dopo la tiepida presentazione in "Let It Bleed") riesce a figurare in grandi performances sonore. Eppure Mick Taylor era in un'ottica tanto lontana da quella degli altri quattro componenti, tant'è vero che oggi mi chiedo perché mai sia entrato nella formazione per quei pochi anni. Ma fortunatamente lo fece, sì, perché, almeno per quanto mi riguarda, Mick ha rappresentato il miglior guitar sound del gruppo, forse non quello più riconoscibile (in questo, Keith ha sicuramente i suoi meriti), ma quello più sorprendente e godibile. Un talento incredibilmente sottovalutato, solo forse perché non andava a donne dopo i concerti, oppure perché non sniffava prima di questi (o magari lo faceva, chi lo sa). Sta di fatto che, se nel primo pezzo c'è ancora l'open G di Keith, "Brown Sugar", con una delle intro più iconiche della discografia dei cinque, e una "dedica" ad una ragazza di colore, o magari solo all'eroina, la seconda, "Sway", è uno di quei brani che esplode, seppur pacatamente, nell'assolo finale suonato proprio dal nuovo componente. La terza traccia è poi la miglior ballad che i Rolling Stones potessero mai partorire, con quei toni assopiti, quelle chitarre a incorniciare il tutto. "Wild Horses" è il miglior brano dell'album, il momento catartico, sognante, idilliaco. La seguente "Can't You Hear Me Knocking" inizia spaccando i timpani, proseguendo poi con sonorità più sporche e "imprecise", le quali sono inedite all'interno dell'album (forse potevano essere individuate solo nella prima track). Il finale rende poi il pezzo il più lungo, con i suoi oltre 7 minuti, il canto lascia spazio ad un arrangiamento strumentale blues/rock, dove prevalgono le percussioni e la chitarra di Taylor, una sorta di jazzata alla Stones (un evento simile accadrà in "Slave", inserito in "Tatoo You" del 1981, registrato però proprio in questi anni). Termina il lato A con l'unica cover, "You Gotta Move" di McDowell, che a sua volta trasse ispirazione da un classico gospel. La chitarra acustica accompagna la cantilena di Jagger per oltre due minuti, prima di lasciare spazio al silenzio. "Bitch" apre il secondo lato similmente a come aveva fatto "Brown Sugar" ma in toni ancora più pop e commerciali. Uno dei grandi successi, chissà perché. Tuttavia rimane un ottimo pezzo, soprattutto per i fiati e le sei corde di Taylor. Per non dimenticare le proprie origini, i cinque ripercorrono le sonorità blues più autentiche in "I Got the Blues", con un climax finale poetico. La mistica e sognante "Sister Morphine" sarà invece la seconda dedica alla droga, se vogliamo considerare valido il prezzo di apertura, qui con la morfina protagonista, a lenire i dolori del fisico e dell'animo. Forse è proprio "Dead Flowers" il brano più riconosciuto dai cinque, e quello più suonato nei live (sempre relativamente), ma dopotutto con un Mick che canta "I won't forget to put roses on your grave" non potevamo aspettarci diversamente. Poi il finale ha qualcosa di magico, non sarà il pezzo più conosciuto, ma forse è quello più bianco e nero, come la copertina, quello che meglio si tinge di questi colori, e che prende i suoi tempi, quelli giusti, per accompagnare delicatamente e lentamente l'ascoltatore al silenzio. "Moonlight Mile" è il capolavoro che non ci si aspettava al finale di un tale album, e invece arriva, senza urlare, ma affascinando ognuno di noi, mettendoci su quella strada a solo un miglio dalla Luna, in quel precario equilibrio che tenta di farci cadere, chissà se ci riuscirà.

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