"...and you are all about to witness, symptomatic Hip-Hop Jazz, 100% groove... And you don't stop! It's from The Roots, Philadelphia based Rap group..."

Ecco, citando la frase posta in apertura dell'LP, la recensione potrebbe essere già bella che finita. Ma a chi non conosce né il gruppo, né il disco, suppongo potrebbe far piacere qualche delucidazione in più. Riuscite ad immaginarvi il punto d'incontro tra una jam session jazzistica in qualche fumoso locale notturno e un cerchio di rapper all'angolo di una strada? Io francamente no. O meglio non ci riuscivo prima di ascoltare la seconda fatica discografica di questo atipico gruppo della Pennsylvania. Che poi in realtà di atipico per un gruppo Rap hanno ben poco: i beattoni in quattro quarti ci stanno, gli mc che cacciano le rime (e che rime!!!! Boia che stile!!! Minchia che flow!!! Cioè te li devi troppo sentire zio...) pure.

Solo che invece che una scatola piena di vinili impolverati, un giradischi e un akai 950, i Roots hanno a disposizione il drumming sempre ispirato, puntuale e pregno di stile di Ahmir "?love" Thompson. E una folta schiera di musicisti a tesserci sopra trame musicali dannatamente jazzy, groovy, ben sapide in vibra dopalistica yo, insomma ci siamo capiti. Si fanno notare positivamente soprattutto la presenza di Steve Coleman al sax e Scott Storch alle tastiere. Ma tutti gli strumentisti intervenuti fanno la propria porca figura. Compreso quel simpaticone di Rhazel, che col suo beatbox che sfugge a qualunque logica umana (certi suoni sembrano VERAMENTE partoriti da una macchina o da un dj dietro i rotanti), si integra perfettamente con, e in alcuni casi sostituisce a, la batteria di Thompson. Dal canto loro, Black Thought (a tutt'oggi uno dei più quotati liricisti del genere) e Malik B, cavano da cotanta pasta musicale il più genuino e fragrante pane rappistico che si possa immaginare. Tanta voglia di intrattenere e divertire l'ascoltatore, attraverso schemi di rime metricamente non troppo complessi ma estremamente musicali. Oltre al ruolo fondamentale del già citato Rhazel, i rumori prodotti con la bocca, le risate, le onomatopee, gli improvvisati cantati scat, sono parte integrante del suono meraviglioso di questo disco. Si ha l'impressione che la band, faccia di tutto per abbattere la barriera tra lei e l'ascoltatore: i Roots non vogliono farti sentire cosa hanno fatto in studio, vogliono che tu sia lì mentre lo fanno.

Il loro elemento naturale sono le assi del palco, il loro ossigeno l'energia che si crea tra il pubblico. Le trovate originali sono tante e tali che c'è veramente l'imbarazzo della scelta: sì passa con disinvoltura da una jam session squisitamente jazzistica, in cui al gioco di chiamata e risposta tra gli strumenti si unisce la voce dei due mc, a tracce ignorantissime in cui gli "Ah-Ah!" dei due costituiscono il loop principale. Per non parlare delle sfide tra beatbox e batteria o della sana spocchia autocelebrativa rappata su un sottofondo di cornamuse. In conclusione di questa lunga e articolata jam session, i Roots pongono un componimento scritto e recitato dalla poetessa e cantautrice afrocentrica Ursula Rucker.

Una splendida occasione per riflettere dopo esserci tanto divertiti. Ce ne fossero occasioni di passare 72 minuti di così alta qualità... 

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