La Black Music, si sa, è un gigantesco contenitore musicale, vario e multiforme, da sempre favorevole a sperimentalismi e contaminazioni di ogni tipo, pronti ad abbattere, rapidamente, le serie di stereotipi che, a riguardo, critica ed opinioni comuni hanno contribuito a tramandare, nel corso degli anni.
Il Rap, senza dubbio, è il genere musicale sul quale, più di ogni altro, ha fortemente pesato, in maniera, per molti, più che negativa, l'enorme e capillare diffusione fornita, negli ultimi anni, dai sempre più invadenti canali mediatici (MTV, in primis...). L'immagine del rapper ingioiellato e circondato da lap-dancers e donnine di facili costumi è ormai sulla bocca e sugli occhi di tutti, e non sono in pochi a considerare la musica prodotta dai suddetti personaggi come un semplice divertissement adolescenziale, adatto ad un target di poche pretese, e rigorosamente under-20.
Gruppi come i Roots, tuttavia, riescono, ancor'oggi, nell'intento di rendere il Rap genere "adulto" e maturo, proponendo tematiche e sonorità ricercate, che, nonostante le vistose aperture e semplificazioni degli ultimi lavori, restano valide e, cosa fondamentale, fruibili da un pubblico vastissimo ed eterogeneo.
Originari di Philadelphia, i Roots vedono la loro nascita verso la fine degli anni '80, quando il batterista ?uestlove (Ahmir Thompson) conosce l'MC Black Thought (Tariq Trotter) alla High School For The Creative And Performing Arts, a South Philadelphia. Constatate affinità intellettive e simili passioni, i due compiono le prime esperienze musicali, in studio e dal vivo, con il nome di Radioactivity, riscuotendo numerosi consensi nella scena underground della metropoli del Pennsylvania. Ampliato l'organico, con l'inserimento del bassista Hub, del virtuoso delle tastiere Kamal, e con l'apporto dello "human beatbox" Rahzel The Godfather Of Noyze, e del secondo MC Malik B, prende ufficialmente vita il progetto The Roots, cui fa seguito l'autoprodotto esordio "Organix" (Remedy, 1993). Il successo di critica è immediato, e il geniale e superbo mix di strumentazione live e ruvido poeticismo urbano folgora la Geffen Records, per la quale i nostri incidono il successivo e magnifico "Do You Want More?!!!??!" (Geffen Records, 1995).
Bisogna, però, aspettare poco più di un anno e mezzo per la vera consacrazione, che arriva con "Illadelph Halflife" (Geffen Records, 1996), capolavoro assoluto dei Roots, nonchè indiscusso manifesto musicale della live band di Philadelphia. L'album, nei suoi oltre 74 minuti di durata complessiva, realizza la sintesi definitiva tra le tendenze Jazz-improvvisative degli esordi e il progressivo cammino verso la classica forma-canzone, risultando assolutamente godibile, dall'inizio alla fine.
Dopo l'impressionistico affresco vocale dell'"Intro", ci si ritrova immediatamente catapultati nelle rime al fulmicotone dell'ipnotica "Respond/React", per essere poi travolti dall'incedere cupo e malinconico della stupenda "Section", dove gli incastri verbali di Black Thought e Malik B sembrano davvero poter continuare all'infinito. Nel breve interludio "Panic!!!" sono i precisi controtempi della batteria di ?uestlove a farla da padrone, pronti a lasciare il terreno alla splendida "It Just Don't Stop", e alle sue atmosfere in bilico tra Jazz-club fumoso e Rap-battle di strada. Sulla stessa scia si posiziona "Episodes", dove al tutto, però. si aggiunge il magnifico ritornello, cantato dalle Jazzyfatnastees, mentre "Push Up Ya Lighter" vira verso sonorità soffuso-subacque (provare per credere!!), impreziosite dalle strofe sussurrate della concittadina Bahamadia. Si continua con il bellissimo singolo "What They Do", forte del magnifico "smooth-sound" della chitarra di Raphael Saadiq, e di riflessioni accese sul moderno stato dell'industria musicale ("The principles of true Hip-Hop have have been forsaken/it's all contractual and about money makin/pretend-to-be cats, don't seem to know their limitation/exact replication and false representation. . . ), poi con gli irresistibili deliri di Rahzel e ?uestlove in "? Vs. Scratch", seguiti dal fantasmagorico collage sonoro di "Concerto Of The Desperado", dove, tra gong, campanelli, cantati in falsetto e tastiere maltrattate, i nostri riescono a creare una straniante composizione finto-campionata, davvero da applausi.
In "Clones" colpisce l'accostamento di momenti eterei e dilatati ad altri più tirati e duri, le rime pacate e sempre puntuali di Common si fondono alla perfezione con le partiture del tappeto musicale dell'oscura "UNiverse At War", e nella profonda "No Alibi" si resta sorpresi dall'intensa commistione tra Fender Rhodes dal sapore vintage e liriche dal forte impatto emotivo ("I'm seeking streets to jeeps/hours, days, to weeks/I even speak to geeks/I hold my fortune, it's sweet/I'm discreet in the streets, but that's just the way I play though/I lay low, but over your head just like a halo. . . ). Nello skit "Dave Vs. Us" i Roots giocano ancora una volta a divertire con le proprie skillz, prima dell'incredibile esercizio di stile di "No Great Pretender", dove Rahzel riproduce batteria, basso e fiati di ogni tipo, così fedelmente da far impallidire il Biz Markie di "Make The Music With Your Mouth". Ci si avvia verso la fine, passando per gli incredibili vocalizzi, a metà tra Prince e Marvin Gaye, gentilmente concessi da un certo D'Angelo in "The Hypnotic", e le ritmiche sostenute del gioiello "Ital (The Universal Side)", dove compare anche un Q-Tip in ottima forma, per poi giungere alla conclusione con l'inno all'improvvisazione contenuto in "One Shine", con il suo mood dal sapore Jazz-Fusion, e le spoken-words della poetessa Ursula Rucker in "The Adventures In Wonderland", prima dell'"Outro", che pone fine al disco.
C'è davvero poco altro da dire su un lavoro eccelso come "Illadelph Halflife", uno dei momenti migliori dell'ormai più che decennale carriera dei Roots, che, nonostante la pazienza necessaria per giungere alla sua completa assimilazione, rasenta la più totale perfezione, sotto ogni punto di vista.
Da comprare rigorosamente, a scatola chiusa.
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