La prima volta che venni a conoscenza di questi The Roots, fu quando il loro singolo(ne) "the seed 2.0" era in heavy rotation sulle fm del mondo occidentale e (forse) non. Lessi poi l'ottima recensione di Zion su quello che credo fosse il loro album d'esordio, e mi ripromisi di prestarci un ascolto il prima possibile.
Recentemente, bazzicando assopito in pensieri inconcludenti che s'accompagnavano benvolentieri ai motivetti molto cheesy di un centro commerciale, adocchiai la custodia "smussata" (quelle nuove con gli spigoli arrotondati, e col libretto che non si distrugge nel tirarlo fuori) e la bella copertina che vedete in alto a destra.
Che io sia completamente estraneo all'hip hop come cultura sociale e musicale mi pare premessa doverosa come chiave di lettura al mio scritto; ne detesto l'immagine ma ne apprezzo in particolar modo influenze e contaminazioni. Nel caso di questi The Roots, che come da nome sono un ponte virtuale tra la musica black passata, le radici e l'hip hop attuale secondo una prospettiva fondamentalmente intellettuale. All'mc si somma una formazione completa comprendente l'immancabile dj, ma anche chitarra, basso e batteria.
"Never Do What They Do" era(è) il loro imperativo categorico, distacco manifesto dalla scena hip hop contemporanea, completamente aliena filosoficamente da quello che questa formazione si propone (di proporre).
Beat sincopati "from the basement", suono impastato fatto di poliritmie come di ossessività ritmiche, (rigorosamente suonate dal batterista/produttore) giri di chitarra funk, synth e saltuario apporto di fiati dal sapore jazz/soul. Il focus del canovaccio sonoro del disco è quindi in egual modo ritrovabile nel flow e nelle rime come nella musica; base, ma non necessariamente semplice sottofondo.
In un' America internazionalmente sempre più in secondo piano sul piano politico, che scope d'aver vissuto al di sopra delle sue possibilità alla vista del salatissimo conto che ogni crisi in quanto tale pretende, e in più sul filo del rasoio della tradizione opposta al probabilmente necessario cambiamento, i The Roots (e i numerosi featuring) rispondono accellerando i bpm e puntando sull'invettiva frustrata di chi è spettatore stanco della propria impotenza.
Le coordinate sono tutte in un hip-hop moderno e crepuscolare trafitto da elettronica gelidamente esistenziale. La titletrack fa affidamento a beat cari all'old school e a un rassegnato arpeggio in minore, le rime fluiscono facendo il punto della situazione con appassionata intensità, lasciando poi il posto agli scratch impazziti e alla batteria cingolata di "Get Busy".
I testi rifuggono gli stereotipi del genere, limitando i fuck all'esasperazione del mood negativo che si respira dalla prima all'ultima traccia di un disco che fa dell'omogeneità una positivissima compattezza d'intenzioni.
Mi risulta quindi difficile sottolinearne gli highlights, in quanto i brani sono molto riusciti e svelano le proprie peculiarità attraverso gli ascolti. Menzione d'onore ai brani posti in chiusura, "The Show" e la sua chiusura strumentale che trova nella sintesi la sua efficacia, e l'unico episodio che si distacca dalle ombre del disco, il singolo "Rising Up" posto in chiusura: la cura dopo l'avvelenamento.
In questo sostanzialmente magro 2008, credo che possano bastare un'ottima produzione, (sudore e raffinatezza) e tanta sincera ispirazione per dissipare la cortina di diffidenza verso lidi musicali generalmente poco frequentati su queste pagine. Gli appassionati di hip-hop credo possano invece stappare la bottiglia che tenevano in serbo per le grandi occasioni, è tempo quantomeno di un brindisi.
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