Fuori c'era un freddo cane quella sera. Nebbia, e un freddo cane. Dentro anche. E nell'animo era pure peggio.
La desolazione, l'amara serenità. L'irripetibilità di ciò ch'era stato e l'irreperibilità di quello che sarebbe potuto essere, quello che ancora oggi potrebbe divenire.

Volteggiavo lungo il perimetro di quella stanza senza prendere pace. La casa era arida. A farmi compagnia solo un vecchio grammofono spento, probabilmente guasto. Pensavo chissà come dovesse sentirsi lui. Immobile, impassibile a tutto. Io potevo dimenarmi, gridare e dare voce alla mia sofferenza. Lui no. Sarei potuto uscire, se avessi voluto. Sarei potuto uscire da quella porta, da quella casa, e dal mio dolore. Se solo avessi voluto. Avrei persìno potuto decidere di farla finita, magari schiantandomi con l'automobile, ed ovviare così ad ogni problema con una sola panacea. Ma lui no.

Avevo un vecchio vinile con me. "Vecchio", si fa per dire. Del 1995. Non ero solito regalare classici.
Ne feci dono a lei non troppi giorni prima. Undici. Perché in compagnia di quel disco, diec'anni prima, passai buona parte della mia esistenza, senza precludermela. Lo portavo sempre con me e, qualche volta, indipendentemente dall'atmosfera o dal vento che tirasse, lo facevo suonare. E suonava sempre nel modo giusto, accondiscendeva a qualsiasi situazione. Potevo ascoltarlo per ore. In qualsiasi posto.
Così aureo, così diretto e così tremendamente emozionale. Malinconia e ritmi giulivi trovavano il giusto punto d'incontro, la giusta armonia. Un disco esemplare, impeccabile. Dove suoni e melodie non urlavano, ma lasciavano questa prerogativa all'ascoltatore. Come responso di una disarmante carezza dell'anima capace di sviscerare implacabilmente l'essenza dell'io.
La melodia senza tempo di "Drive" ne era lampante prova: mai sentita prima, eppure conosciuta da sempre. Quella onirica solennità nell'inciso di "Mystery Girl" e nelle strofe di "Revolver". Brani che riuscivano a scombussolarmi mestamente l'animo, ogni volta. Poi la cadenzata "You Have a Light", che mi aveva sempre ricordato gli Smiths di "Headmaster Ritual". Proprio gli Smiths, che tanto le piacevano.

Scelsi di cederglielo convinto potesse parlarle di me. Farle vedere con i miei occhi.

Avevo quel vinile con me, perché proprio quella sera decise di restituirmelo. Mentre lo faceva, pensavo avesse ascoltato un brano per ogni giorno passato senza ch'io la vedessi, come le pirandelliane novelle per un anno. Erano passati undici giorni dall'ultima volta. Undici interminabili canzoni. Ma lei, di quelle canzoni, non aveva ascoltato nulla. Lo posai tra le sue mani troppo tardi, ignaro ch'ella avesse già deciso le sorti del mio futuro.
Me lo restituì e se ne andò senza dire nulla. Era tutto così chiaro in quella nebbia, che domandarle spiegazioni avrebbe avuto meno senso che non farlo.

Erano dieci anni che non lo ascoltavo. Quando quella sera lo misi su, il tempo sembrava non essere mai passato. La gioia non aveva più il suo volto. Il dolore, per quarantacinque fugaci minuti, non si fece sentire. Il freddo divenne un tiepido vento caldo. E a gridare non ero più io. Ero felice. Felice per quel grammofono, che si stava togliendo un macigno dal cuore.

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