Forza della musica. Debolezza della vita.
Omaggio a Sky Saxon nel 50° anniversario di “Raw and Alive: The Seeds in Concert at Merlin’s Music Box”.
Sky Saxon, al secolo Richard Elvern Marsh (20/08/1937, Salt Lake City, Utah - 25/06/2009 Austin, Texas), è stato un hippie, un bardo, un ribelle più o meno attendibile. Scriveva e componeva pezzi garage rock o flower punk, suonava il basso, l’armonica e il tamburello, cantava in modo istrionico con voce spinosa, aggressiva e monocorde.
Dopo una manciata di marginali singoli di teenage pop in collaborazione con la cantante Darla Hood (Richie Marsh & The Hood) e di r’n’b (Sky Saxon & The Electra Fires e Sky Saxon & The Soul Rockers), nel 1965 a Los Angeles forma i Seeds con Daryl Hooper (tastiere), Jan Savage (chitarra) e Rick Andridge (batteria).
A lanciarli, oltre alle esibizioni al Club Bido Lito di Los Angeles, sono fondamentalmente due canzoni:
- “Can’t Seem to Make You Mine”, una ballata smancerosa, ma dallo stile aspro e granuloso, con Saxon che guaisce, affannandosi tra singhiozzi risucchiati e gemiti;
- “You’re Pushin’ Too Hard”, un successo bruciante, un manifesto dell’underground dell’epoca. Brano dal suono essenziale, ipnotico e ripetitivo, con un riff sporco e vincente di organo e chitarra, un canto ossesso e sguaiato, da subito a fissare un canone, la loro cifra artistica definitiva.
Il pezzo, venne rivisto e rititolato “Pushin’ Too Hard” per l’edizione dell’ottimo LP d’esordio (l’omonimo, GNP Crescendo, 1966). Nel medesimo anno pubblicano “A Web of Sound”, ancora blues rock e accentuazione dei tratti psichedelici. L’anno successivo, abbandonate le pose stonesiane per la dilagante flower music, esce “Future”, un curioso concept psichedelico, più pop che rock, quindi è la volta dell’opaco “A Full Spoon of Seedy Blues” con la ragione sociale temporaneamente mutata in “Sky Saxon Blues Band”. Nel maggio 1968, esattamente cinquant’anni fa, stamparono “Raw and Alive”, sempre per la GNP Crescendo Records, album che riporta la band alle sue infiammanti radici garage rock.
I Seeds esprimono un sound grezzo, duro, scarno, un “garage punk” improntato all’attitudine garagistica del beat inglese (con attenzione a Rolling Stones, Kinks e Pretty Things) e ai connazionali 13th Floor Elevators. Lo stile è ispido, sfilacciato, con la preminenza dell’organo che detta la ritmica, s’intreccia ai sussulti della chitarra e ai timbri ruvidi e scompostissimi di Saxon; l’ossessiva ripetizione degli accordi lascia trasparire una psichedelia immediata e primitiva. L’iconografia floreale e il gusto trash rifiniscono questo prototipico garage rock, fatto da musicisti dalle capacità limitate, ma forti di uno spontaneismo ammirevole.
È il 1968, la band è dunque incerta tanto sulle direzioni artistiche da assumere quanto sulla propria sopravvivenza. Opta, col suffragio del produttore Marcus Tybalt, per un live. Ma come testimoniare al meglio l’energia straniante dei loro spettacoli? Come rendere adeguatamente appetibile l’audio della performance? Registrando il set dal vivo in uno studio, secondo una prassi già consolidata all’epoca. Nasce così “Raw and Alive: The Seeds in Concert at Merlin’s Music Box”, anche se l’evento non fu registrato presso quella Coffee House, bensì presso gli studi Western Recorders di Hollywood. Non bastasse l’idiosincrasia, il pubblico è posticcio, meccanico, urla e si eccita nei momenti più casuali, per non dire che delira fastidiosamente quasi per tutta la durata dei brani. Ecco insomma un Fake Live Album, che però sa essere un gioiellino nel suo genere (peccato solo manchi in scaletta la dirompente cavalcata “Excuse, Excuse”).
Le canzoni furono davvero incise in presa diretta, senza manipolazioni. La voce di Saxon consegue una evidenza selvaggia; organo; basso e batteria fanno il loro, vedi l’allucinata "Satisfy You", l’espansiva "Night Time Girl", davvero poderoso il suo tappeto percussivo pulsante, e "900 Million People Daily All Making Love" così grezza e istintiva. La chitarra di Jan Savage vanta un timbro più profondo rispetto alle omonime e precedenti incisioni. L’intrigante forza eversiva di “Up in Her Room” è l’impazzita apoteosi: si tratta di una spinta e primordiale pulsione erotico-psichedelica che sì rifà a “Going Home” di “Aftermath” degli Stones. Oltre alle splendenti e lascive “Can’t Seem to Make You Mine” e “Pushin’ Too Hard”, ad una “Mr. Farmar” allo zolfo, compaiono un paio di inediti ("Humble and Bumble" e "The Gypsy Plays His Drums"). Nulla invece viene ripescato da “Future”, l’invettiva pop lisergica, cui Saxon negli anni seguenti si dimostrerà invece affezionato.
Se sappiamo prescindere da quel “pubblico” che impazza in maniera tronfia, possiamo davvero godere di questo testamento live, che sciorina un repertorio di immortali classici underground e tutta l’energia primitiva della “First Psychedelic Era” (immortalata trasversalmente in “Nuggets, 1965-68”).
Il vero concerto d’addio delle Sementi si tenne il 3 maggio 1969, al Santa Monica Civic Auditorium: tra il pubblico, si ricorda, un esagitato, invasatissimo ventiduenne di nome Neil Percival Young. Se il loro rock tastieristico contagerà i Doors, l’istrionismo scenico di Saxon verrà imitato da Johnny Lydon.
Se questa è l'âge d'or, non è però tutto sul leader Richard Marsch. Dopo qualche sporadico singolo (un paio come Sky Saxon And The Seeds con line up ritoccata), Saxon nel 1971 scompare dalle scene ufficiali per aderire alla setta del fantomatico guru Ya-Ho-Wha o Faher Yod, al secolo James Edward Baker di Cincinnati (Ohio). Questa specie di messia-yogin aveva dapprima seguito gli insegnamenti di Harbhajan Singh Puri detto Yogi Bhajan, autorità sikh e maestro di Kundalini Yoga e Tantra Bianco, in seguito si era buttato sull’esoterismo occidentale (pescando genericamente da alchimia, cabala, teosofia e becero occultismo), tanto da “produrre” alcune dottrine segrete, che univa a un manifesto vegetarianismo. Baker deteneva la Source, una grande catena di ristoranti -guarda caso- specializzati nel menu vegetariano (tra i clienti fissi John Lennon e Julie Christie!); fondò una comune (la Source Family) sulle colline di Hollywood e ne divenne la guida spirituale. Oltre a 14 mogli ebbe un suo gruppo di rock psichedelico e tribale, gli Yahowha 13, di cui fu il cantante. Saxon, che era entrato in quel giro, collaborerà alla registrazione dei loro album, ricevendo da Ya-Ho-Wha il nuovo nome di Sunlight, cui resterà sempre legato, ma anche quello di Arlick. Così avvenne che Saxon abbandonò ogni cosa, averi e diritti d’autore compresi, per dedicarsi interamente (anima e corpo) allo svolgimento dei due fondamentali compiti che il santone gli aveva assegnato:
1) La pratica della musica esoterica.
2) Niente di più e niente di meno che la cura dei cani randagi.
Kinikòs bios? Se non lo è questo! Sunlight seguitò così, più o meno professionalmente, a fare musica con altri adepti, ma in modo paludato (forse spartì qualcosa con qualcuno di questi oscuri progetti "Spirit of 76", "Savage Sons of Yahowha", "Yodship" e "Breath"). Nell’agosto del 1975 decedette il guru Ya-Ho-Wha, Saxon Sunlight con altri seguaci optò per trasferirsi in esilio alle Hawai. Partecipò in seguito –stavolta con certezza apodittica- a svariati progetti sotto molteplici denominazioni (The Starry Seeds Band, Sky Saxon & Firewall, The Hour, Wolf Pack, Fast Planet, Back to the Garden, King Arthur's Court, Shapes Have Fangs), finché come Sky Sunlight insieme a Michael Rainbow Neal formò la World Peace Band, dedicandosi al chitarrismo mistico in modo più libero e creativo. I due divennero poi la Stars New Seeds Band, incidendo regolarmente dalla metà degli anni 80, con amici e colleghi come Mars Bonfire, tastierista dei Steppenwolf (il compositore di "Born to Be Wild"), e di Ron Bushy, batterista degli Iron Butterfly.
Ma con Saxon sono stati in molti a voler collaborare: ricordiamo Kim Fowley, Steve Wynn, Rudi Protrudi, fino a Billy Corgan. Nel 2002 c’è stata qualche data per una reunion con le Sementi originali. Nel 2008 è uscito persino un nuovo album a nome The Seeds ("Back to the Garden", composto insieme a Mike Oak per la loro Airplay Records, ristampato l’anno seguente da Global Recording Artists).
Saxon è un personaggio interessante, un capellone ingenuo, ma bonario, un rivoltoso per copione, ma anche coerentemente scanzonato (almeno in età senile), l’adolescente che inneggia alla lussuria, l’adulto incerto nella ricerca mistica, un novello Proteo, ma anche un uomo che si è sempre dedicato con immediatezza bella e disarmante alla garage music. I suoi mezzi espressivi erano limitati, ma, nel suo regime, è stato grandioso. Quel suo canto rozzo e commovente, dice qualcosa della vitalità della musica rock. Qualcosa di endemico, di semplice e necessario: «Solo provaci!», “Choose to Love”.
Sky Saxon è deceduto il 25 giugno 2009, a causa di insufficienza renale, legata a un’infezione, e insufficienza cardiaca. Si è spento a 71 anni ad Austin, nel Texas. Ironia della sorte lo stesso giorno in cui morì Michael Jackson.
Il 24 luglio, membri di Love, Strawbarry Alarm Clock, Electric Prunes e Smashing Pumpkins hanno tenuto un concerto tributo all'Echoplex di Los Angeles.
Di Sky Saxon sento la mancanza. Non ho bisogno di farne un idolo.
Mi Piace vederlo nel video di “Barbie Doll Looks”, mi intenerisce e rasserena. Mi piace pensarlo con quella faccia tra gli angeli. E nel suo cuore il ribollire della stagione 66-68, in un fervore incrementato d’intensità.
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