“Paint my Name in Black and Gold…”
Attento, lettore. Non troverai qui dentro alcun giudizio musicale: formulato a suo tempo, esso è diventato ormai un dettaglio superfluo, che offusca anziché chiarire. Del resto, non ne sarei capace.
Più che una recensione, questo è un atto d’incondizionata devozione (personalissima, certo…), che solo potrebbe motivare la stesura di queste poche righe su un album in alcune parti ormai vecchio di più di un quarto di secolo. Stringiamolo fra le mani, prima di aprirlo e metterlo sul piatto. Eccolo qui: un oggetto di culto, quasi un manifesto.
Già a partire dalla copertina: nera, su cui si staglia, in bianco, il logo -una testa lobotomizzata- della Merciful Release. Il titolo fa eco, in maniera ironica, al nome del gruppo, giocando a rimpiattino con riferimenti di carattere religioso, e allude alla natura antologica del lavoro. Terzo full lenght in ordine di pubblicazione (dopo "First and Last and Always" e "Floodland"), "Some Girls Wander By Mistake" è infatti una raccolta (tuttavia non completa) della fino ad allora disordinata produzione dei Sisters compresa tra il 1980 e il 1983 e dispersa in numerosi singoli e 12”. Ascoltarlo significa così accedere a registrazioni altrimenti difficilmente reperibili, ritrovando nella loro forma più pura (ed avvincente…) quegli ingredienti originali che hanno fatto della band di Leeds un’ icona: una sezione ritmica anomala, costruita sui battiti metronomici ed incalzanti di Doc Avalanche e il basso cupo e minaccioso di Adams, le chitarre acide e graffianti di Marx e Gunn e su tutto, come una nera sacerdotessa costantemente al centro della scena, la splendida timbrica vocale, enigmatica e tenebrosa, di Andrew Eldritch, abilissima a dipingere paesaggi d’inconsolabile alienazione metropolitana.
Eppure al disco (e al gruppo) va stretta la dicitura di “gotico”, la pur comoda etichetta dove tutte le vacche risultano essere appunto nere. In realtà si tratta di un rock sì oscuro e claustrofobico ma, nella misura in cui si fa perfetto interprete dello stato d’ animo di un’epoca, tutt’ altro che stereotipato e manieristico. L’iconografia gotica, per quanto presente (e certo i Sisters hanno senz’altro contribuito a crearla, checché ne dica ora mister Eldritch dal suo neghittoso esilio tedesco) è cioè l’aspetto meno eclatante, più superficiale, di un’estetica che innanzi tutto aderisce intensamente al vissuto ed è pertanto genuino bisogno d’espressione. Innestandosi come tutta la new wave sul tronco della contro-cultura punk, di cui i Sisters condividono l’approccio minimalista e liberatorio (e pezzi naif e a dir poco approssimativi come Watch o the Home of the Hitmen stanno lì a ricordarcelo), Eldritch e soci esplorano, radicalizzandola, la componente nichilista inconsciamente preconizzata dai Pistols al grido “No future”. Ne scaturisce un originale linguaggio musicale che amalgama in una sintesi esemplare suggestioni di diversa provenienza, senza che sia possibile quantificarle con certezza: l’hard rock anni settanta, il clash rock di Suicide, la disco, il rock militante e dissonante dei Fall...
Qui la paura, il vuoto generazionale, il senso angoscioso dell’esistenza vengono interiorizzati e filtrati attraverso una sensibilità morbosa e decadente che trasforma in immagini epiche e visionarie la squallida banalità della vita quotidiana, i suoi aspetti contraddittori, le sue ordinarie miserie. Ma non è un banale processo di sublimazione. Il sogno, il delirio, gli stati alterati di coscienza (anche autoindotti. E che i numerosi riferimenti alle droghe non siano semplicemente un motivo letterario, lo sta a testimoniare la stessa esperienza biografica del leader…) acquistano uno spessore e una consistenza quasi fisici. Da un lato, infatti, essi sono metafore in grado di rappresentare la condizione limite dell’esistente, dall’altro diventano esse stesse il fondamento ultimo della realtà. La parola non è più soltanto veicolo che conduce altrove, che rimanda ad altro; ma vive di vita propria, s’incrosta di preziosità realmente poetica, si fa orizzonte di senso proprio in quanto denuncia la totale mancanza di qualsiasi Abgrund, di qualunque fondamento: sono l’arte, la parola e la musica l’ago e il filo con cui tener cucita una vita dilacerata, tesa come una coperta troppo stretta fra la fuggevolezza del presente e l’imperscrutabilità del futuro.
Non è un caso che molti pezzi raggiungano uno spessore emotivo e una tensione quasi religiosi; che la stratificazione di simboli e significati divenga ad ogni ascolto più densa e variegata, fin quasi a formare una meticolosa sintassi delle emozioni che riempie di nuovo pathos le cose dopo averle svuotate dei loro significati più usuali, più stantii. I motivi per godere di quest’album sono tanti, almeno quanti le canzoni che lo compongono. Incapace di stabilire una preferenza, come di esplicitare compiutamente le emozioni che ogni ascolto continua a suscitarmi, cito a caso: “Alice”, un classico assoluto, introdotto dal battito straniante di drum machine e poi lanciato in una cavalcata senza tregua lungo i meandri turbinosi dell’anima; “Body Electric”, il primo vero singolo del gruppo, testimonianza del temperamento musicale che lo anima: ritmica incalzante e mozzafiato, riffs sdrucciolevoli di chitarre distorte e voce minacciosa e graffiante a snocciolare liriche surreali ed allucinate; “Lights”, oscura e depressa, così suggestivamente intessuta di echi doorsiani ma al contempo spalancata su scenari di allucinata introspezione. “Heartland”, a suo modo uno delle più commoventi testimonianze d’amore, profonda, drammatica, col suo lentissimo sfumare sulla stessa identica espressione, ripetuta all’ infinito come in un disperato esorcismo; “Valentine”, criptica e amara meditazione sull’assurdità della guerra; “Kiss the Carpet”, lenta, maestosa ed ipnotica iniziazione agli arcani misteri di una psiche vacillante; “Burn”, raggelante salmodia da rituale occulto, giocata sulle evoluzioni vocali di Eldritch, che ora sembrano rotolare inesorabilmente giù (“Down down down… ”) verso abissali forre senza uscita, ora grattano disperatamente le pareti di loculi socchiusi; “Floorshow”, micidiale tarantola di rock ballabile e quasi epilettico che aggiorna in tono sarcastico lo straniamento della vita moderna al ritmo da discoteca.
“Temple of Love”, la loro hit di sempre, nonché uno dei pezzi più potenti e trascinanti che, a mio modesto parere, siano mai stati scritti nell’ambito della musica pop. Una piccola perla nera che tutti dovrebbero annoverare nel proprio personalissimo catalogo, di cui tutti dovrebbero almeno una volta poter apprezzare le preziose, intense opalescenze. Un disco vivo, ancora intenso e ardente, anche se di un fuoco freddo che strazia dal profondo. Ascoltatelo. Ed amatelo. Sempre.
Carico i commenti... con calma