Confesso il mio snobismo. Confesso che ho un debole verso gli album difficili da trovare, quelli che prima ordini dal tuo negoziante di fiducia, senza risultati tangibili, e che dopo vari tentennamenti decidi di cercare in negozi sperduti dell'Inghilterra periferica. Mi piacciono questi album soprattutto se poi, in realtà, sono dischi di una semplicità candida e disarmante. È anche per questo che il primo album dei Sixth Great Lake, uscito nel 2001, mi piace da matti.

Me l'ha spedito un negoziante di Leicester, con allegata la borsetta del negozio e un biglietto di ringraziamento scritto a penna: "thank you for your order". Mi sono commosso.

E ancor più mi sono commosso dopo aver ascoltanto le quindici canzoni di questo "Up The Country". Folk americano allo stato brado: batteria (volentieri spazzolata), chitarre acustiche, basso, wurlitzer, armonica, violoncello, voci diverse che si intrecciano, testi agresti di chi vive da tempo fuori città e passa le giornate nell'orto di casa.

"Gli hippie sono tornati", scriveva Will Sheff recensendo questo disco anni fa, prima di diventare il leader celebrato degli Okkervil River. "È musica che non suona come nient'altro uscito dopo il 1980". Tutto vero: bisogna risalire ai Sessanta-Settanta per piazzare davvero questo disco nel suo habitat naturale. Tutto vero. Anche se, a ben vedere, adesso c'è una cosa che suona un po' come i Sixth Great Lake, e sono gli Okkervil River.

Ascolti "Blue" e capisci da dove viene la vena malinconica dello Sheff migliore dei primi tempi (quello di "Red"), con sfumature melodiche avvinazzate e voce rauca (e testo che occhieggia al blues: "My girl don't lie in bed with me anymore, she's always out the door like everybody else"). Ascolti "Across The Northern Border" e capisci da dove deriva il sostrato folk di una "Song For Our So-called Friend". Ascolti tutto e capisci da dove viene quel misto di country e rock da taverna con amici.

Ma "Up The Country" non trova le sue ragioni soltanto in certe anticipazioni okkervilliane (copertina inclusa). Le sue ragioni le trova nelle atmosfere serene e nostalgiche, nella lentezza epica di "The Ballad Of A Sometimes Traveller", nella brevità lieve di "Cannon Beach" e nel suo fraseggio di flauto, nei paesaggi di colline assolate, nelle linee di armonica di "Spin Your Wheels", che qualcosa avrà detto al Bright Eyes più bucolico. Per un'estate in campagna, tutta erba e chitarra.

Il secondo album dei Sixth Great Lake è uscito soltanto su vinile. Lo si può ordinare sul loro sito, ormai non aggiornato da anni, mentre il lavoro della band si è ormai esaurito: il progetto principale di tre dei cinque laghisti, The Essex Green, occupa gran parte del loro tempo. Ma è un'altra storia, una storia newyorkese, che non sa di campagna, non odora di uva, e che è troppo facile da reperire.

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