Le Slits di Ari Up e Viv Albertine furono, a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta, una delle più folgorati esperienze di superamento del Punk inglese. L'urbanità della Londra thatcheriana faceva del meltin pot un'inclusione e laddove vi erano squat anarcoidi non era improbabile trovare dei soundsystem Reggae.
Delineato questo scenario le dinamiche evolutive di quello che, con il senno di poi, è considerabile il maggior complesso al femminile di quell'epoca/epica, non risultano troppo oscure. L'incipit, volente o nolente, è il medesimo: il dualismo, nè etico nè programmatico, va detto, tra le figure di Lydon e McLaren. Il primo ebbe il merito di sdoganare, facendo da precursore, la cultura dei bassi giamaicani e del soundsystem in un contesto prettamente Punk, con i suoi Public Image Limited, mentre il secondo provò a trasformare le ragazze, all'epoca (1977) onesto gruppo Punk senza arte nè parte, in un'epopea femminista in grado di coprire il solco lasciato dai Sex Pistols. Quest'ultima ipotesi rimase tale.
Da qui il processo evolutivo delle Slits troverà la sua cementificazione in dinamiche Dub Punk minimaliste e scarne, con l'ausilio del mastermind Dennis Bovell, la vera mano dietro le manopole, nel senso meno metaforico possibile, della bass culture in Inghilterra. Ed è in questo contesto storico, l'anno di grazia 1979, che va ascritto "Cut". Lo split con il Pop Group e la relativa frequentazione (Bruce Smith sostituì la partente Palm Olive, alla batteria) furono solo la conseguenza di un tipo d'approccio parallelo tra i due gruppi, ma affine, di contaminazione etno futurista. Con "Return Of The Giant Slits", album datato 1981, il quartetto confeziona quello che è, in definitiva, il proprio lavoro maggiormente di frontiera e costruttivo. Abbandonata del tutto l'estetica del Punk, ma non l'etica della massimalizzazione tramite minimizzazione, il disco in questione sposta più in là il baricentro compostivo, avvicinandosi sempre più ad una World Music, via Dub, sbilenca e sul filo della tensione. Lo slancio offerto dall'iperdinamismo tribale di Bruce Smith mette qui in evidenza delle strutture via via più labili e fluide, tendenti alla schizofrenia più che alla composizione di canzoni, al contrario di quanto avvenuto in ogni uscita precedente. Non più "Typical Girls" o favole da supermarket - citando un brano delle Raincoats, loro propaggine non meno importante per quanto concerne il lavoro di ricostruzione non rock - ma introspezione primitiva e alienazione dall'urbanità.
Alla luce di quanto successo in quegli anni e di quanto, ancora, avvenuto a cavallo degli anni dieci del duemila, dove ogni contenitore musicale è divenuto microcontenitore e macrocontenitore allo stesso tempo (si pensi solamente al naturalismo Not Not Fun circa 2008, per citare il caso più rilevante), è un'opera che ha bisogno di rivalutazione postuma e ricollocamento storico in quel processo di decostruzione Punk, avvenuto usandone i medesimi strumenti e le stesse chiavi di lettura.
Carico i commenti... con calma