I Radiohead, con i loro pregi e i loro (pochi) difetti. Quel gruppo lì, ma senza la fatica e il peso di essere i Radiohead, di far tremare i polsi alla critica anche solo a sentirne pronunciare il nome. Yorke e Greenwood (insieme a Tom Skinner) lasciano i giornalisti orfani del loro feticcio e sparigliano le carte. La sindrome da abbandono è evidente già nelle prime recensioni. Articoli che titolano ad esempio: “Perché questo disco non è a nome Radiohead?”. “I Radiohead travestiti”. “Il più bel progetto parallelo dei Radiohead”. E notate come inizia questa recensione...

Feticcio, feticcio, feticcio.

Tommaso e Jonny sono un pezzo più avanti di coloro che pensano di poterli giudicare e mostrano qui la grinta dei giovani. La sensazione è che abbiano proprio voluto sgravarsi di un peso, una responsabilità, l'incubo di dover rispondere a delle aspettative (cos'è A Moon Shaped Pool se non un disco in cui i Radiohead si costringono a fare i Radiohead? Laddove The King of Limbs poteva essere la vera, scomoda direzione del gruppo). Cancellato quel nome, i nostri possono tornare a essere se stessi, senza la paura di deludere, o di vedersi un 6.0 su Pitchfork.

E allora buttano nel calderone un po' di tutto. Dalle sincopi elettroniche ai rigurgiti wave, la rarefazione robotica dell'uomo macchina (The Same) e il tremendamente umano (We Don't Know What Tomorrow Brings), lo sguardo sconsolato sull'esistenza e i pruriti politici. Gli incubi orchestrali di Suspiria (Pana-vision) e le affumicature jazz dei loro momenti migliori. Le ballate, a volte, tornano a lambire le proporzioni auree di un tempo: un masticare amaro sul futuro, sulla nostra coscienza collettiva, contrappuntato dall'ariosa bellezza delle melodie di Yorke (Free In The Knowledge).

I tre riescono a restituire una forma canzone immediatamente fruibile (tredici brani per 53 minuti, vietate le lungaggini) pur esplorando le loro nuove influenze. Ma, come sempre, è un'esplorazione verticale, e ci pensa Nigel Godrich a renderle giustizia con una stratificazione sonora quasi incredibile. Nei meandri delle canzoni si aggirano le orchestrazioni del Greenwood compositore di colonne sonore, il flauto, la tromba e il trombone, il violino, la viola, il violoncello. Un disco squisitamente suonato, che fa sentire quasi tattilmente l'amore per gli strumenti (The Smoke, The Opposite).

Fioriture sonore che impattano a volte contro le asperità dell'ossessione creativa, quella che spreme gli strumenti facendoli quasi impazzire. I tempi di Skinner (grande sparigliatore di carte qui) e le ombreggiature orchestrali esaltano gli umori folli di alcuni pezzi. Un sapore adrenalinico che non si sentiva da un po' nei dischi di Tom e soci. Quella violenza intellettuale che però sa colpire allo stomaco. Thin Thing, A Hairdryer, vertigini che segnano una nuova giovinezza.

Il disco suona molto bene e poteva essere qualcosa di davvero grande, con un po' di pazienza in più. Nel senso che la grinta e l'energia si stemperano un poco nella seconda parte con troppi pezzi che si rifanno ai Radiohead più liquidi e d'atmosfera (Open the Floodgates, Waving a White Flag). Mi sarebbe piaciuto sentire uno Yorke meno lamentoso e introflesso. Un disco patchwork (alla Hail to The Thief) ci può stare, ma avrei preferito in alcuni casi delle pezze diverse.

La libertà e l'energia del nuovo esordio funzionano, ma fino a un certo punto. Manca appunto quell'ossessione paranoide in fase di concepimento, quel rovello morale ed estetico che ha partorito cose “disumane” come la True Love Waits del 2016. La freschezza e i suoni differenti di alcuni brani si scontrano con un certo manierismo di fondo che si percepisce nei pezzi più canonici. Non riesco a emozionarmi profondamente. Alla fine, anche loro, sono partiti come Smile ma sono approdati di nuovo a quella dolce ossessione chiamata Radiohead.

Solo che manca il sentimento a sottendere quelle squisite paranoie.

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