La sveglia all'alba. Un treno, un altro, poi uno ancora. Attraverso una Ferrara rovente, raggiungo l'albergo, mi do un attimo di tregua. Alle 18 sono in coda, immagino la storia d'amore con i Radiohead di ogni persona intorno a me (ognuno pensa di essere unico nell'ascolto di una band, e forse lo è). Alle 19.30 ci fanno entrare, la corsa sfrenata lungo piazza Trento e Trieste per prendere i posti migliori. Sono in prima fila, al centro. Altre ore d'attesa, alle 20.30 suona un pazzo stralunato, poi ancora silenzio.
Quando salgono sul palco, così vicini, quasi non so che fare. Guardarli soltanto, ballare, fare video. Viene da ripensare a quante emozioni ho investito su di loro (nelle diverse conformazioni), quanto tempo e quanto struggimento adolescenziale, quanta ammirazione da uomo adulto. La fatica di raggiungerli a Ferrara è solo l'ultima di vent'anni di dedizione. E mi viene da chiedermi perché: c'è un motivo per cui così tanta gente si ammassa in una piazza, stretta e sudata, per guardare e ascoltare quell'uomo canuto?
È come se ogni gesto, ogni nota di chitarra, quelle parole scandite in inglese oxfordiano di cui capiamo ben poco, fossero tutti gesti simbolici. Un rito che ha il suo senso precipuo nella ripetizione di se stesso, una messa che non promette la salvazione eterna ma una redenzione terrena. La redenzione è immaginata nel cuore di ognuno, nell'estasi di vedersi fare carne quelle musiche che normalmente viaggiano astratte nell'aere, nei pensieri dei nostri giorni tutti uguali o diversi. La redenzione è nell'attesa del momento catartico, nel suo faticoso avvicinamento, e nel ricordo indelebile, nei feticci, nei gadget, la maglietta e il disco.
Un rito che si autoalimenta. Nella bella ragazza di 26 anni che sgomita di fianco a me e poco conosce del rock, nell'uomo maturo avvinghiato alla transenna, che racconta affabulatorio i tempi del grunge. Ognuno percorre una storia tutta sua, più o meno dettagliata e densa, ma tutti intrecciano le loro vite per un paio d'ore in questa bella piazza. Non importa tanto cosa venga suonato, conta quello che c'è stato prima e ha preparato il percorso.
La band ha un solo disco e lo suona quasi tutto, davvero bene. Suona anche alcuni inediti che ormai si stanno facendo un nome. Rispetto al gruppo "madre" c'è meno storia, la bellezza ha avuto poco tempo per decantare, e dunque lo struggimento non può essere uguale. È una semina, tanta nuova musica per tornare in futuro e dirci: siamo quelli che vi hanno fatto emozionare con Free in the Knowledge.
Però c'è tanto rock, tanto talento e canzoni suonate divinamente (Greenwood è un alieno che ci blandisce con le sue note), un cantante che sembra recitare i suoi pezzi. Non c'è routine, o almeno, Yorke sa fare in modo di nasconderla. Come se quello fosse il suo unico concerto dell'estate, come se noi fossimo il suo pubblico elettivo, come se quelle frasi le avesse scritte solo e soltanto per noi, per me.
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