THE SMITHS The Queen is dead
Non me ne vogliano i numerosi fans, ma non ho mai considerato gli Smiths tra gli imprescindibili nella storia del Rock.
Sono stati una grande band da singoli, e certamente “This charming man” è tra i brani più significativi degli anni 80, nel trasportare il jingle-jangle sound dei sixties nel limaccioso contesto della loro decade. Hanno sicuramente segnato un’epoca – per altro più socialmente – e influenzato diverse band, (benché la qualità degli epigoni sia spesso stata scadente, specialmente dalle parti del brit-pop). Tuttavia, faccio fatica a trovare nel repertorio di Morrissey e soci un solo album dotato di quella compiutezza organica e di quella ricchezza espressiva tale da renderlo una pietra miliare. Un “Zen Arcade” , un “Murmur” o un “Daydream nation”, tanto per restare negli anni 80: qualcosa che incide il nome dei suoi autori nella leggenda.
Non credo che “The queen is dead” faccia eccezione, benché venga spesso citato quando qualcuno si diverte a stilare classifiche dei migliori album di tutti i tempi. Il primo singolo estratto è non a caso il migliore episodio tra i 10 presenti: “Bigmouth strikes again”, col suo immortale giro di chitarra, e con la Rickenbacker in odore di Byrds di Johnny Marr a condurre le danze. Non che manchino momenti piacevoli tra i solchi di “The queen is dead”: la title-track e “Vicar in a tutu” – non trascendentali nei loro echi kinksiani – sono almeno geniali affreschi dell’Inghilterra thatcheriana, e “Somegirls are bigger than others” è certamente tra le più ispirate composizioni di Marr, abilmente spalleggiato da un Morrissey insolitamente conciso ed efficace nel descrivere la cruda realtà della vita. Purtroppo si trovano anche diversi brani francamente inconcludenti, che costituiscono il ventre molle dell’opera. “Frankly Mr. Shankly” e “Cemetry gates” sono canzoncine pop innocue e irritanti, mentre “Never had no one ever , "I know it’s over” e “The boy with the thorn in his side” hanno seriosità pari alla loro staticità. In questi ultimi è il vecchio Moz a farla da padrone, con un lirismo manierato (pietra d’angolo dell’ insopportabile miserabilismo che ne costellerà la carriera solista), le sue soporifere storie di angoscia adolescenziale e certi vocalizzi irritanti. Di ben altra pasta è fatta “There is a light that never goes out” , in cui la magniloquenza morrisseyana riesce a tenere fede alla propria grandeur, forgiando un capolavoro epocale di teenage angst (chi ne ricorda la splendida citazione nel romanzo “Trainspotting” di Irvine Welsh ?), tra schianti di autobus e arrangiamenti sopraffini orchestrati da Marr.
Paradossalmente, il miglior album degli “Smiths” è forse proprio l’epitaffio “Strangeways here we come”. L’unico senza singoli memorabili, ma con una manciata di composizioni in grado di ampliare a ventaglio lo spettro stilistico della band. Non a caso, l’unica cosa su cui Morrissey e Marr si trovano ancora oggi d’accordo è nel considerare quello il punto più alto della parabola dei “Signori Rossi”. Niente di straordinario anche qui, ma l’avevamo detto. Band da singoli, a volte, si resta a vita.
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