E' difficile parlare dei Sound senza non provare un senso di pallida tristezza, se non proprio amarezza. Inglesi, nati nel luogo e nel momento giusto, ritmi punk e testi decadenti come tanti altri colleghi del tempo -Joy Division su tutti-, epici e compatti, niente da invidiare agli U2 degli esordi, e una punta di psichedelia caratteristica di quella fucina di talenti che tornava ad essere Liverpool, -pensiamo ai concittadini Teardrop Explodes ed Echo & The Bunnymen- eppure tutto questo non bastò mai a consacrarne il successo, ad allargare coordinate che rimarranno sempre ristrette ad una cerchia di sinceri estimatori, ma niente più. Troppo poco per un gruppo che, appena ad inizio carriera, dava alle stampe gioielli come "Heartland" o "I Can't Escape Myself", e un secondo album, "From The Lions Mouth", che definire perfetto sarebbe quasi riduttivo. Forse l'errore principale fu la gestione da parte della casa discografica, non in grado di promuovere adeguatamente quelle meraviglie ed anzi, a fronte dello scarso successo commerciale ottenuto, diventata sempre più cinica ed esigente con il quartetto. Il "fatidico terzo disco" nasceva dunque sotto una cattiva stella, tra la diffidenza dei produttori e il rancore ostinato dei nostri, decisi a non mollare proprio adesso, ma a continuare guardando dritto senza curarsi delle pressioni esterne, che chiedevano una musica più radiofonica ed accessibile.

"All Fall Down" prosegue infatti sulla scia di "From The Lions Mouth", ma con un andamento più discontinuo, tra momenti cupi ed altri di respiro più pop, privi tuttavia di quello smalto scintillante che ricopriva i lavori precedenti. Se i testi di Borland riparano verso un enigmatico ermetismo, le musiche, e in generale la costruzione dei brani, tradiscono tutta l'inquietudine del periodo: tra episodi di rabbia, tristezza, conflitto, ma anche di riflessione e poesia, si snoda un lavoro difficile, malinconico, a tratti monotono ma non per questo privo di fascino. La title track iniziale rimane imprigionata tra i battiti cupi della grancassa, mentre le tastiere disegnano paesaggi sinistri. Arriva in tempo la leggerezza di "Party Of My Mind", una gemma pop che sa d'incompiuta, fragile ed originale, con un Borland sornione che ci invita tra le intricate vie della sua mente. La prima sorpresa è "Monument", lenta, circolare, così poetica e misteriosa, da farsi ascoltare anche centinaia di volte, fino alla sua piena rivelazione. "In Suspence" e "Where The Love Is" sono invece episodi incerti, sospesi a mezz'aria tra slanci combattivi ed ordinaria amministrazione. Apre il secondo lato "Song And Dance", anch'essa frammentaria ma più credibile nella sua irruenza, un brano teso, emblema degli umori che si potevano respirare entro e fuori gli studi di registrazione. Segue "Calling The New Tune", uno strano esperimento di pop elettronico in sé piacevole, dove ogni strumento percorre strade inusuali. L'attacco di "Red Paint", epica e serrata, ci riporta finalmente tra le fauci dei leoni con l'immediatezza e la furia di solo pochi mesi prima. "Glass and Smoke", invece, stende una lunga e ossessiva trama ipnotica sopra la quale la chitarra sfoga tutti i suoi impulsi più abrasivi. La chiusura è affidata alla poesia di "We Could Go Far", affascinante ed impalpabile, una nebbia d'inverno che avvolge le strade lasciando spuntare solo i lampioni, un piccolo capolavoro col quale un Borland dalla voce spezzata prende così commiato: "Noi potremmo cadere… potremmo andare lontano…".

E in effetti, con questo album struggente e contraddittorio, i Sound si allontanarono ancor di più dai riflettori che contavano; una malinconica deriva apparentemente auto-inflitta, ma inevitabile, considerate le aspettative e lo stress cui il gruppo fu sottoposto. Da questo impasse i nostri sapranno scuotersi e reagire, confezionando lavori più accessibili e non meno suggestivi come l'ep "Shock of Daylight" e il successivo "Head And Hearts". Ma se la critica rispose positiva, non altrettanto soddisfacente sarà il riscontro del pubblico, che relegherà il gruppo -nessuno saprà mai veramente perchè- ad un debole fenomeno di nicchia. Le ristampe cd della Renascent, se non altro, permettono a me e a molti altri che all'epoca non potevano dire la loro, di scoprire le tante gemme che ci hanno regalato e di diffonderne l'eco, rendendo così giustizia al fragile talento del compianto Adrian Borland

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