È quasi un mistero l’irresistibile attrazione che ha portato alla fine degli anni ’70 inglesi due generi apparentemente opposti come il punk e la musica ska-reggae a incrociarsi e unirsi visceralmente. Sicuramente ha influito l’acceso periodo culturale-musicale, scosso da un ribellismo giovane che, per quanto iconoclasta col passato, voleva aprire tutto a tutti e nel nostro caso desiderava rendere possibile l’idea della “vita rock” per chiunque, di qualsiasi razza, ceto sociale o conto in banca. In questa Inghilterra laburista agitata da nuove libertà possono trovare spazio piccole realtà locali dai fermenti insospettabili, che abbracciano l’etica punk intesa più come la chance di poter “far musica”, di uscire da destini spesso squallidi con l’ausilio di pochi mezzi e qualche buona idea.
In queste periferie se si è disoccupati il colore della pelle non conta più, e le nuove generazioni cominciano a crescere insieme, scambiandosi le qualità, gli amori, i dischi. E se qualcuno aveva avuto la madre patita dei Beatles, altri avevano i nonni emigrati dalle ex-colonie caraibiche, e magari sentivano in casa qualche vecchio vinile degli Skatalities e di Prince Buster. E non fu un caso che il reggae d’ampio respiro di giganti come Bob Marley o Peter Tosh, profeti dai grandi messaggi sociali universali e promotori di un genere molto più tecnico e raffinato, non attecchì molto nel mondo musicale di Sua Maestà. O meglio, veniva celebrato e stimato all’unanimità, ma come fenomeno estraneo, quasi turistico, mentre in patria si provava a recuperare un suono molto più semplice, grezzo, quasi primitivo.
Oltretutto lo ska-reggae era relativamente facile da suonare quanto il punk, e questa scoperta attirò ragazzi emergenti che cominciavano a suonare nei quartieri più poveri le prime canzoni. Si cominciò come ad identificare in questa bizzarra e colorata musica d’oltreoceano “la vena punk” della musica afro-americana. Ad essa vennero perciò incollati con naturalissimi risultati le tematiche sociali tipiche del movimento bianco dell’epoca; ma non si parlava dei problemi da un punto di vista super partes come potevano fare un Jimmy Cliff o i Wailers, questi erano i problemi quotidiani di comuni ragazzi inglesi che vagabondavano per le piccole suburbie di Sheffield o Manchester in cerca di un lavoro o di una donna.
I toni erano meno rabbiosi di quelli delle usuali della protesta, ma ancora più potenti nella loro innocente evidenza; mentre la musica sollecitava tutti a ballare, e nel modo più sfrenato e animalesco (all’inizio è più un dimenarsi che altro), i musicisti diventavano (e spesso lo erano davvero) gli amici che abitavano due isolati dietro casa tua, che per una sera stavano sopra un palco a parlarti di loro, di te, della loro “nuova” musica.
Lo ska-revival fu senza dubbio inaugurato dagli Specials e dalla loro mente, il tastierista/compositore Jerry Dammers, vero Johnny Rotten del genere. Il gruppo di Coventry, stabilizzatosi nel 1977 in una fantastica formazione a sette (cinque bianchi e due neri tra cui Dammers), fecero il loro esordio come open-act dei Clash (che invece si stavano muovendo, assieme ai sempre neonati Police, verso un originale punk-reggae). Fu un inizio esplosivo, dove i nostri introdussero una nuova formula, fatta di storie proletarie e tanta effervescente dancehall: col primo singolo “Gangsters” arrivarono subito le prime offerte dalle major ma Dammers preferì fondare da sé una nuova casa discografica indipendente, per far sviluppare liberamente il proprio gruppo e i tanti epigoni (tra cui Madness, Selecter, English Beat, ecc) che si stavano già facendo avanti. Nacque così la Two-Tone, “due toni”, ovvero il bianco e nero che caratterizzava il look della band (i completi neri con cravatta, occhiali e cappello retrò diventeranno l’uniforme ska) e la grafica “a scacchiera” dei loro lavori, simbolo dell’unione incondizionata di musicisti bianchi e neri. E gli Specials riusciranno con il loro primo omonimo seminale album (prodotto nel 1979 da un naso lungo come Elvis Costello) a parlare di razzismo con un candore e una simpatia così persuasivi da non permettere repliche.
In quarantacinque minuti ci danno solo un assaggio della loro potenza live, fatta di performance entuasiamanti e apparentemente improvvisate data la loro spontaneità. Col fantastico vocalist Terry Hall, accompagnato spesso da duetti e passaggi col chitarrista Lynval Golding e col percussionista Neville Stamples, vengono affrontati i temi più diversi, ma sempre con ironia tipica inglese e il vivido realismo di chi quei fatti li vive o li vede ogni giorno. Dalle amare e deludenti notti in cui tutto sembra far schifo dalla birra alle ragazze di “Nite Klub” dalla violenza urbana di “Concrete Jungle” fino all’inno pro-contraccettivo di “Too Much Too Young” e all’esilarante processo matrimoniale a due voci di “Stupid Marriage”. L’approccio della band è spesso aggressivo e crudo, pungente senza molti giri di parole, come nell’invettiva contro il razzismo “It Doesn’t Make It Alright”: come altre canzoni attirò polemiche sul gruppo, abituato fin dalle prime apparizioni a disappunti da parte della critica, per la loro indomabile ed esplicita voglia di dire a ogni costo quel che secondo loro non andava della società. Ma astutamente gli Specials smorzano i propri toni aspri e disincantati con tre splendide cover che portano un po’ di sole caraibico nel grigiore di un’isola collassata e disorientata. Per questo l’apertura della mitica “A Message To Rudy” di Dandy Livingstone ci pone subito sulla strada giusta, un’atmosfera serena e genuina con cui seguire il resto dell’album; allo stesso modo la successiva “Too Hot” di Prince Buster, seguita a ruota dall’estiva “Monkey Man” dei leggendari Toots & The Maytals, ci serve da indispensabile intervallo ristoratore dopo l’incontenibile energia degli episodi originali. Anche se gli Specials dopo un ottimo e interessante seguito (“More Specials”, 1980) si eclisseranno lentamente, l’eredità di quel periodo indimenticabile, di queste melodie dolci e sognanti, di questi strani musicisti-amici-fratelli, di quell’alchimia magica tra pubblico e rockstar improprie ma bellissime, non ci ha più abbandonato. E continuiamo a ballare su queste stesse note, riflettendo e sorridendo con la voglia di far sapere agli Specials di allora che la realtà non è affatto cambiata e abbiamo ancora bisogno di piccoli eroi come loro.
Carico i commenti... con calma