Atmosfere plumbee.
Un pallido sole tra le nuvole.
Foschia dentro, nebbia fuori.
Malinconia.
Ciò che poteva essere, ma non è stato.
Se sei in un periodo particolare della tua vita, “If I was” ti si potrebbe attaccare addosso come i giappi si attaccavano alla carta moschicida in “Mai dire Banzai” (“Takeshi's Castle” + “The Gaman”).
Non parlano di vite al limite, non parlano di vizi, non parlano di politica, non parlano dei problemi della società, ma “The Staves” affrontano la tematica dell’amore, spesso sofferto, confuso, talvolta freddo come la pietra. Sia chiaro, niente di nuovo sotto il profilo della scrittura, ma il risultato è sempre quello: se sei in quel mood, sai che della musica accompagnerà il tuo pensiero e potrebbe essere questa.
Se così non fosse, meglio per te, ma quest’opera vale comunque un ascolto, non fermarti alle prime note.
Le sorelle Jessica, Camilla and Emily Staveley-Taylor sono un etereo trio britannico, di Watford e si può tranquillamente asserire che cantino assieme da sempre.
Fanno il loro esordio nella discografia con un ukulele e una chitarra, tre voci cangianti, buone intenzioni ed il minimalismo imperversante di “Dead & Born & Grown” (2012), ma è dopo aver aperto qualche concerto della tournée dei “Bon Iver” che le ragazze fanno la conoscenza di Justin Vernon.
E’ una tappa cruciale, perché il suono, tra il primo ed il secondo album, cambia quasi radicalmente, sottolineando ancor di più la qualità vocale di Jessica, Camilla e Emily, grazie alla produzione del polistrumentista e cantante del Wisconsin.
“Blood I Bleed”, approccio profondamente spiritual, prima traccia dell’album, mette subito in chiaro le cose. Ci troviamo di fronte ad una maturazione, è lampante la ricercatezza, specialmente a livello sonoro ed è qui che Vernon mette le sue impronte digitali.
L’emozione che la splendida armonizzazione vocale riesce a trasmettere (e già trasmetteva nel primo lavoro, anche se alla lunga in maniera un po’ asettica, a tratti stancante), si amplifica grazie ad un’ambientazione musicale finalmente consona a non rendere eccessive le appoggiature armoniche o ridondanti le fasi di contrappunto stilistico.
In “Black & White” la voce di Emily, a cappella, fa quasi impressione per nitidezza, il drumming iniziale viene rimpolpato dalla coralità e da una chitarra elettrica elegantemente svalvolata.
Una canzone verticale è “Damn It all” che, senza sconvolgimenti testuali, in termini di lunatismo (Even though I love you, I want you to go / Oh I don't know / Go back), ha un bellissimo percorso che conduce al climax dirompente di fine brano.
Tra i momenti migliori “No me, No you, No more” (Cause you don't need me no more / You don't love me no more / You don't want me at all), “Teeth White” che é il brano che più si avvicina ad uno stile di folk inglese rispetto al resto dell’opera ed il featuring con lo stesso Vernon in “Make It Holy” (I could make you want me, make you need me, make you mine / I could make it holy, make it special, make it right), probabilmente l’estratto migliore dell’opera. Una chitarra in Fa minore apre la traccia, ravvivata con un cadenzato e marciante rullante, fino a lasciare profondere la polifonia ed il viluppo timbrico.
Ho apprezzato il profilo musicale. C’è qualcosa de “The Corrs”, dei “Fleet Foxes” e tanto di Justin Vernon ma, devo ammetterlo, la cosa che più mi ha colpito è la voce di Emily, che nel registro medio-alto, mi ha ricordato enormemente Joni Mitchell.
Credo che le ragazze dell’Hertfordshire abbiano un grande potenziale vocale, esplorato solo parzialmente.
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