La storia del rock è un bluff.
Noi ci illudiamo di poter conoscerla in tutte le sue sfaccettature, in tutte le sue evoluzioni, in tutte le sue ramificazioni. Noi crediamo di poter dire con assoluta certezza che questo ha inventato quello, quest'altro ha influenzato quell'altro, quest'altro ancora ha ispirato quell'altro ancora. Quando accumuliamo un buon bagaglio di conoscenze (grazie al Web, la nostra miniera), ci costruiamo tutte le nostre teorie, la nostra idea di come sono andate "veramente" le cose nella storia della musica rock, di chi è arrivato prima di tutti gli altri e di chi, invece, ha copiato di più. La nostra soddisfazione nel vedere qualsiasi cosa (gruppo, album, stile) al suo posto ci rende padroni del mondo.
Ma sappiatelo (lo sapete già, sono sicuro: è per questo che DeBaser è il mio sito del cuore): l'albero genealogico che noi stessi abbiamo fatto crescere, quello che vede Chuck Berry alla radice, i gruppi storici dei 60's come tronco, e poi via via tutti i rami, le foglie, fino ai germogli degli ultimi mesi, è la pianta più fragile che esista al mondo. Basta scoprire che nel 1973 (ad esempio) qualcuno suonava una musica che abbiamo sempre creduto inventata nel 1985 e siamo fottuti. Ci crolla il mondo. E allora, preso atto dell'impossibilità di ricostruire realmente i fatti (che, niceanamente, non esistono), non ci resta che condurre questo ineluttabile relativismo alle estreme conseguenze e vivere perennemente nell'illusione che "questo ha inventato quello, quest'altro ha influenzato quell'altro, quest'altro ancora ha ispirato quell'altro ancora". In tal modo, ognuno di noi avrà la propria, personalissima Storia del rock. Ognuno di noi avrà il mano la Verità. Ognuno di noi avrà le sue stronzatacce da condividere con gli altri. Ognuno di noi sarà un critico musicale. Ognuno di noi avrà ragione. E vivremo tutti in pace.
Per quel che mi riguarda, ho ragione a dire che gli Stick Men sono stati il vertice del funk-punk. Marginali come pochi (venivano da Philadelphia), hanno prodotto, nei primi anni 80, due album di musica da party per non-umani. Sono "This Is Master Brew" e "Get On Board", raccolti poi su "Insatiable" nel 2001.
Microscopici scarabocchi di chitarra, tempi impazziti, elettronica irridente, brevissimi ritagli di strumenti calpestati, una voce che sbrana le viscere, la plastic-music degli anni 80 accartocciata e pasticciata. Assenza totale di pietà per l'ascoltatore, nessuna pausa, nessuna digressione, nessun respiro melodico, nessuna catarsi, niente pathos, niente compassione, solo cinismo, sarcasmo. Brandelli di funky asciutto, gommoso, asettico e scheletrito, nervi a fior di pelle, il cervello che salta in aria. Tecnocrazia a servizio del caos, la civiltà contemporanea frullata in un cocktail indigesto, la metropoli ripresa in un documentario dal montaggio serratissimo, l'esplosione di ogni nevrosi. Siamo in un altro pianeta rispetto all'umanitas dei Minutemen, o all'angoscioso primitivismo del Pop Group. Anche il no-funk di James Chance viene umiliato. Forse solo Mark Stewart all'epoca, assieme ai Maffia, poteva tenere il passo degli Stick Men, ma quella era musica elettronica e lo strumento principe era la console.
Il disco cerebrale per eccellenza. Manda nei matti. Inutile citare un brano piuttosto che un altro. Una musica fatta non di carne, né di elettricità, ma di microchips. Musica suonata praticamente dal vivo, con strumenti tradizionali, eppure senza cuore. Questo disco sarà di attualità attorno all'anno 2100, quando oramai i nostri sentimenti saranno completamente azzerati.
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