Anni ‘77-'78, anni ruggenti, anni d'oro. Nella Londra del punk, quattro ragazzi in giacca di pelle camminano di notte dando calci alle lattine e facendo commenti pesanti sulle malcapitate di turno. Teste calde con un debole per la musica, quella vera, gli Stranglers hanno svelato presto che in loro di punk c'era solo l'attitudine; perché rabbiosi e inquieti quanto si vuole, nonostante il faccino di J.J. Burnel e l'aria da "medico in famiglia" di Dave Greenfield, ma una volta accesi gli strumenti in molti hanno dovuto togliersi il cappello, sin dagli inizi.
"Rattus Norvegicus" è l'esordio epocale, in cui si notò subito come l'immediatezza del punk potesse andare a nozze con gli innesti melodici delle chitarre e soprattutto delle tastiere, suonate con una tecnica fuori dal comune. Completano il profilo un basso, quello di Burnel, che sembra una motosega dentro un tubo d'acciaio, e la voce potente del leader duro e puro Hugh Cornwell. I ritmi sono sovente incalzanti, come si conviene a chi ha poco tempo da perdere e le cose te le sbatte in faccia, ma è una rabbia armoniosa, quella degli Stranglers, a tratti epica. Ascoltare ad esempio "Sometimes" , "Hanging Around" e soprattutto "No more Heroes", un anthem che sarà lo specchio sonoro di una generazione. Il terzo lavoro della band è questo "Black and White", album dalle intenzioni manicheiste sin dalla copertina, in rigoroso bianco e nero, e con una tracklist organizzata volutamente in un white side e un black side. Più che un intento di maniera, per il gruppo si tratta di un'occasione per fare il punto su di sé e giocare con luci ed ombre delle sue sfaccettate identità. Fino ad allora c'era stato poco tempo per pensare, e l'orologio non sembrava voler smettere di correre. "Black and White" è infatti il terzo album in due anni, ma l'impressione è che più che volersi bruciare, questi ragazzi proprio si divertano.
Il primo lato, quello bianco, va giù tutto d'un fiato: si passa dalle cannonate tra turbini di tastiere di "Tank", all'impasto squadrato di "Nice'n Sleazy" fortunato singolo; dal valtzerino elettronico di "Outside Tokyo" all'hard-core brioso di " Hey! (Rise Of The Robot)" fino agli assalti basso-batteria di "Sweden", brano dal testo -e dal video- a dir poco grotteschi. Chiude, mantenendo i ritmi serrati, l'epica "Toiler on the Sea", con pregevoli interventi di chitarra e tastiere impazzite a dividersi la scena. Il lato nero è invece affidato alla guida di Burnel, che canta quasi tutti i pezzi, e si presenta da subito più cupo e sperimentale. Se "Curfew" viaggia ancora su linee vivaci, i toni di "Threathened" e "In the Shadows" evocano notturne periferie industriali, merito sempre dei trucchi del fantasioso Greenfield, di un basso tagliente ed effettato, e di una voce strascicata come dopo una sbronza. Seguono "Do you Wanna" e "Night and Death and Blood" , che ad un ascolto distratto sembrano un tutt'uno perché furbescamente legate; mentre però la prima è ancora il rantolo di un teppista rissoso, la seconda vanta un tiro di grande impatto, e si candida tra le migliori del disco. Affilata e gelida è invece la conclusiva "Enough time", che chiude come non t'aspetti, strizzando l'occhio ai Kraftwerk.
La ristampa su cd ripropone altri episodi facenti parte di quel periodo ma non inclusi nel progetto: tra questi si segnala la stupenda rivisitazione di "Walk On By"di Burt Bacharach, impreziosita da eleganti tocchi d'organo e con al centro una lunga digressione strumentale il cui il gruppo sfodera tutto il repertorio. Da ricordare pure "Old Codger", altra cover con il jazzista George Melly alla voce, ed una versione alternativa di "Sweden" ricantata, guarda il caso, in svedese.
Alcuni curiosi aneddoti riportati nel libretto: l'album viene promosso in Islanda, tra grandi freddi, sbronze di ogni sorta, concerti in locali violenti, e continue lotte fisico-verbali con giornalisti petulanti, alcuni dei quali furono vittime di pesanti scherzi proprio per mano dei nostri. Da qui la fama di cattivi ragazzi ad un gruppo che tutto sommato non superava in goliardia tanti loro colleghi del tempo. Ma la fortuna di "Black and White" non dipenderà solo dalle cronache sui giornali riservate ai suoi creatori, vivendo questo benissimo di luce propria. Forse ad un primo ascolto troppo scorrevole e veloce, bisogna dargli i tempi giusti e le canzoni escono fuori come esplosioni di cannonate, tanto per restare in tema. E' vero, forse c'è stato ("Rattus Norvegicus") e ci sarà ("The Raven") anche di meglio; ma non c'è dubbio che questo disco, e quella sua copertina d'autore, abbiano contribuito in maniera decisiva a trovar casa al quartetto tra le icone della musica.
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