Nell'Inghilterra di fine anni '70, invasa dalla febbre del punk, compare nei negozi, tra gli scaffali delle novità, questo vinile dalla copertina inquietante. Un corvo nero portatore di tristi presagi scruta l'orizzonte alla ricerca di chissà cosa. La macchina del tempo ci trasporta nel 1979. Loro sono gli Stranglers (Strangolatori) e col punk c'entrano ben poco.
I loro tre album precedenti avevano mostrato una band che si discostava dal tipico suono spartano "due accordi e via" per approdare gradualmente ad un sound molto più elettronico, con ricorrente uso delle tastiere. The Raven è il quarto capitolo della carriera di questi quattro inglesi, e ne rappresenta anche il capolavoro.
Il gruppo trova finalmente un suo equilibrio, la sua maturità, capisce soprattutto che è meglio concentrarsi su ciò che vuole fare davvero, invece che cercare a tutti i costi il successo da hit parade. Ne viene fuori un album molto originale, dalle sonorità spesso controverse, dotato di un fascino ambiguo.
Il benvenuto è affidato alla breve e strumentale "Longships", preludio al fascino obliquo della title-track. Un ritmo marziale, incalzante e ossessivo, viene accompagnato da una chitarra impertinente e da svolazzi elettronici. Subito dopo fa la sua comparsa un synth che disegna un memorabile riff, di quelli che ti entrano in testa e non vanno più via, anche a costo di diventate fastidiosi. Un piccolo capolavoro. "Dead Los Angeles" è ancora più ossessiva col suo ritmo ipnotico, degna apripista ad un altro capolavoro, la robotica "Ice". Un motivo di tastiera crea un'atmosfera glaciale e terrificante allo stesso tempo. Il bello è che non siamo dinnanzi ad un disco dark, con tutti gli stereotipi tipici di questo movimento, non ci sono recite teatrali alla Bauhaus, litanie alla Siouxie, né tantomeno visioni pagane alla Virgin Prunes, gli "Strangolatori" usano una tecnica molto più sottile per atterrire, più cerebrale e per questo più efficace. Bisogna vedere quanto consapevolmente, ma questo è un altro discorso, fatto sta che il disco suona così. Emblematico è la seducente elettronica di "Baroque Bordello", intrisa di un senso di timore celato, di tragedia imminente. "Nuclear Device" allenta leggermente la tensione, prontamente ristabilita dal piano sinistro di "Don't Bring Harry", altro capolavoro di suspence, questa volta meno velata, ma sempre dannatamente affascinante. E se "Duchess" è l'unica concessione all'AOR, unico pezzo veramente "solare" del lotto, la successiva "Maninblack" è invece l'esatto contrario. I quattro inglesi scoprono definitivamente le carte, sfoderando una marcia funebre elettronica, carica di effetti (compresi quelli sulla voce), con squarci terrificanti di synth, e riff macabri di chitarra. Ennesimo, e questa volta ultimo, capolavoro.
Dimenticato da molti se non da tutti, The Raven è un gioiello nascosto di tutta la new wave, e per questo ancora più piacevole da riscoprire. Il gruppo non toccherà mai più in futuro simili livelli, ma il corvo nero che consegnò alla storia fu di quelli di razza.
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