The Streetwalkin' Cheetahs su uichipedia non ha lo straccio di una riga e fosse solo per questo gli voglio un gran bene.
Figlio di Hellacopters come Hellacopters era figlio di Motorhead, il suono è un mammut che affonda le zampe nel proto-punk di Ron Asheton e Fred Smith e abbatte ogni barriera valicando baldanzosamente territori hard'n'heavy e metal. E se qualcuno si azzarda a obiettare, “Freak Out Man” lo sommerge con tonnellate di watt.
Se ne viene fuori nel 1996 con un ep titolato “Heart Full of Napalm” e l'anno dopo un singolo insieme a Deniz Tek mette in fila “Do The Pop” e “More Fun”: basta e avanza per farsi un'idea di dove va a parare la vicenda. Ci butto dentro anche lo split con Bellrays “Punk Rock And Soul”, primo perché è straordinario, secondo perché ci sta una cover di “Slow Death” che non lascia scampo e chiarisce la storia ancora meglio. Poi, a differenza di Bellrays, The Streetwalkin' Cheetahs non s'è mai compromessa coi banchieri e ha continuato a spacciare decibel nei bassifondi, dove una pagina uichipedia non te la regala nessuno, al massimo una buona dose di rispetto e credibilità.
Quasi 30 anni per le strade di Los Angeles, poca carne al fuoco ma gustosissima: tolti una manciata di singoli, un ep e un paio d'album dal vivo, “Overdrive” è l'esordio sulla lunga distanza, l'album da avere se ne vuoi avere solo uno, ma se ti stende al tappeto poi è difficile resistere alla tentazione di essere percosso ancora da “Waiting For The Death Of My Generation” e ancora da “Guitars, Guns & Gold” e ancora da “Gainesville” e ancora una volta da “One More Drink” che un paio d'anni fa segna il ritorno in scena dopo 15 anni e pure in ottima forma.
Insomma, solo “Overdrive” è troppo poco, quanto meno ci vanno abbinati “Live on KXLU” – stordente resoconto di una nottata passata a suonare in una stazione radio losangelina e 20 minuti almeno da tramandare ai posteri, l'autografa “Built For Speed” che deraglia in una infinita “Funhouse” – e per fare le cose in grande il doppio cd “All The Covers (And More)”, pubblicato l'anno scorso in contemporanea con “One More Drink”.
Anzi, per dirla tutta, mi sa che “All The Covers (And More)” alla fine è il modo migliore per fare conoscenza con The Streetwalkin' Cheetahs.
Il titolo dice tutto in tre parole facili facili, tutte le covers suonate in 30 anni spesi sulle assi di un palco traballante o tra le mura scalcinate di uno studio di registrazione.
Se possibile, la copertina dice pure di più, ricalcata su “All The Stuff (And More)” e mai plagio fu così chiaro segno di devozione verso uno stile (con un filo di retorica) di vita.
Dentro ci sta il rock'n'roll secondo The Streetwalkin' Cheetahs: la trinità del suono di Detroit, gli Stooges di “1970” e “Funhouse”, il saccheggio a chitarre spianate di “Kick Out The Jams” e “Looking At You”, i figliocci Radio Birdman ripresi in “Do The Pop” e “More Fun”, con Wayne Kramer e Deniz Tek a serrare le fila e ispessire il muro del suono; la scena losangelina, da un'amfetaminica “Los Angeles” ai Dictators e la leggenda dei Dead Boys rivisitata palmo a palmo insieme a Johnny Zero; e poi il rock'n'roll delle origini che parte da Little Richard e arriva nei paraggi di Flamin' Groovies, perché senza di loro non c'è nessuna storia da raccontare; e pure quello che non ti aspetti da unaa banda di sostanziale estrazione punk, Cheap Trick e Hanoy Rocks, Motley Crue e Aerosmith, Red Hot Chilli Peppers e Iron Maiden, e chi storce il naso ci ha capito poco o niente della vicenda del rock'n'roll.
Che poi alla fine, dopo 38 brani e quasi 2 ore e mezza, mi chiedo ogni volta a che serve una robba del genere e immancabilmente mi rispondo che non serve a niente. Però The Streetwalkin' Cheetahs e “All The Covers (And More)” mi fanno rivivere sempre le emozioni assurde che provai la prima volta, la prima volta che sentii alla radio “Aloha Steve And Danno”, la prima volta della puntina abbassata su “Down On The Street”, la prima volta di «Hey, we're the Ramones, this one's called “Rockaway Beach”» e allora a qualcosa serve, altroché.
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