Pochi gruppi mi fanno venire la diarrea quanto gli Strokes. 5 fighetti bellocci figli di miliardari, abituati a sniffare coca sui culi delle modelle di papà Casablancas, incapaci di suonare un singolo strumento.

Questi bambocci dai “nomi così particolari” (moooolto coool!) in fondo non hanno fatto niente di male: hanno creato su un complessino ai tempi del loro lussuoso liceo newyorchese: non riuscivano a cavare un ragno dal buco, ma era il miglior modo per rimorchiare tra una sniffata e un weekend nella casa al mare a Long Island. Tutti fanno così, no? Poi qualcuno decise che era ora di riportare in auge il “rock and roll” (??!), dopo anni di dominio nelle classifiche dei vari Prodigy e Limp Bizkit: ed ecco fatto. Tutti i media a farsi le pippe parlando di questo disco, e a ricoprirli di elogi anche oggi, dopo che questi pagliacci sono in declino commerciale. Mentre uno come Jack White ha dovuto farsi il culo per anni prima di raggiungere il meritato successo, mentre un genio come Neil Hagerty continua a bazzicare per i locali più infimi. Ma il tempo è galantuomo notoriamente, e oggi è evidente che riascoltare il primo disco degli Strokes dà ragione a chi ha sempre pensato che fossero delle merde.

Il sound è pietoso: un batterista totalmente incapace, in grado solo di ripetere sfiatate marcette (però si scopa Drew Barrymore, tutto molto cool e newyorchese!), un bassista al cui confronto Novoselic era Les Claypool, due chitarristi che letteralmente strisciano sulla 6 corde, ottenendo un suono patetico e monotono nel riciclare i riff dei Feelies e assoli dozzinali. Stendiamo poi un velo pietoso sul cantante, e sulla sua voce resa insopportabile dalle conifere in mezzo al naso. Un disco piatto e inconcludente, uno sbraco insopportabile tra marcette spompate come “some day” o “soma” e ammiccamenti al brit poptrying your luck”, “barely legal” o “the modern age”, perché giusto in Inghilterra, accanto agli Oasis, possono apprezzare un gruppo così. Non un guizzo, non un’impennata ma tutto incredibilmente monotono, come se i Pixies tra 30 anni suonassero in ospizio, come in “take it or leave it”. Un rock fatto apposta per essere la colonna sonora di una sfilata di Calvin Klein.

Incredibile poi come parlando di queste merdacce si citavano Velvet Underground e Television: due dei gruppi più originali di sempre, che cazzo c’entrano con questi ??? Frasi tipo “sembra lou reed nel 1977”, “ricorda Waiting for the man”, “riff usciti da Marquee Moon”. O certa gente ha il cerume inchiodato nelle orecchie, o era il classico modo di oliare il meccanismo, far vendere più dischi e giornali. I Velvet nel rock sono stati l’eccesso, la rappresentazione di una società malata: questi possono giusto passare la serata in qualche festino a sniffare con Lapo, dopo che costui ha lasciato lo studio di Kissinger sulla quinta strada.

Roba da matti.

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