Sono da sempre una persona di poche parole. E quelle poche cerco di spenderle per ciò che ritengo meritevole. Nonostante questo, nella vita di tutti i giorni non si può dire che io non sia un tipo socievole e anzi è semplice legare con me. Il mestiere che faccio d'altronde mi mette a contatto con un'infinità di gente, di tutti i tipi e di tutti i luoghi, e i convenevoli certo non si sprecano. Pur non facendo parte della mia natura. Quello che è davvero complicato però è rafforzare quel legame. Sono una persona diffidente, riflessiva, e che ama proteggere quel microcosmo di affetti di cui si circonda e al quale è difficile accedere.
Così è un po' anche per la musica. Ascolto di tutto, sono da sempre un appassionato ricercatore, ma quello che resta dentro alla fin fine non è molto. Nel tempo mi sono creato le mie certezze, i miei porti sicuri. E tra questi sicuramente ci stanno i Tea Party. Li ho amati al primo ascolto. Un po' perchè all'inizio della loro carriera rielaboravano in maniera egregia la lezione dei maestri Led Zeppelin, il mio più grande amore in ambito musicale. Ma sentivo che c'era dell'altro. Non solo per le capacità strumentali del trio in questione, ma anche perchè loro come il sottoscritto amano la ricerca, sia essa del suono perfetto o della melodia senza tempo.
In questi mantra i Tea Party rielaborano e shakerano tutto ciò che hanno fatto in precedenza, dallo Splendor Solis elettroacustico dei loro primi lavori fino alle tentazioni industriali dei successivi. La band indurisce e modernizza il proprio Moroccan roll per trasformarlo in un hard rock a tutto tondo, ma come sempre intriso delle loro tipiche spezie orientali e di arrangiamenti ancor più ricercati, dove la tecnica rende semplice ciò che in realtà non lo è per niente. Dove orecchiabile non è più una bestemmia, ma diventa l'ennesima dimostrazione di una classe innata. E in effetti la qualità in questo “The Interzone Mantras” la fa da padrone, con una sezione ritmica che ha un tiro pazzesco e Jeff Martin alla chitarra più ispirato che mai, tirando fuori riff ed assoli tra i migliori del suo già ampio bagaglio. Gli strumenti etnici sono più dosati rispetto agli esordi, ma vengono compensati da un largo utilizzo di strumentazione orchestrale e una larga schiera di ospiti. Un tripudio di violini, violoncelli, trombe e sassofoni. E chi più ne ha più ne metta. La voce dello stesso Martin ha ampliato il proprio spettro e si è liberata dal legame spirituale con lo sciamano Jim Morrison, per inoltrarsi con più risolutezza nella ricerca melodica. Questo non lasci però ingannare, perchè il mood dell'intero disco in realtà è decisamente dark, più di quanto lo sia stato in passato, fatta eccezione per il solo Transmission, il loro lavoro più duro ed oscuro. I pezzi da ricordare sono molti, su tutti le splendide e rocciose “The Master and Margarita” e “Cathartik”, ma come già scritto la qualità media è alta e non ci sono veri e propri cali di tensione.
E come direbbe William Burroughs, dal quale il gruppo ha preso ispirazione per il titolo, “Parole, colori, luci, suoni, pietra, legno, bronzo appartengono all’artista vivente. Appartengono a chiunque sappia usarli.” E I Tea Party sanno di certo far buon uso della propria arte.
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