Pur facendo parte di un gruppo che aveva come sani principi la libertà di espressione (al di fuori di ogni regola musicale precostituita) chissà perché il chitarrista John Langford abbia sentito l'esigenza di mettere su un trio con John Messrs Hyatt (voce) e John Brennan (basso) ...senza contare Hugo, la scatenata drum machine. Mentre i Mekons rappresentavano (per dirla alla Occhetto) una gioiosa macchina da guerra, forse Langford aveva contemporaneamente bisogno di una snella unità di guastatori con la licenza di frantumare le balle al reaganismo (il singolo "Death of European" del 1985 è espressivo) e al thatcherismo imperante (l'altro singolo "Sold down the river"). Così nella grigia Leeds degli anni ottanta nasceva un altro coraggioso atto di insubordinazione ("non siamo una band socialista, siamo dei socialisti che suonano in una band") contro un presente che lavorava vigliaccamente alla normalizzazione di ogni alternativa. La botta l'avevano data soprattutto i Gang of Four, ma la banda dei quattro era anche troppo seriosa nella sua affinità senza divergenze con il compagno Marx, mentre i tre Giovanni la buttavano sull'ironia feroce e dissacrante, come dei Monty Phyton capaci di prendere per il culo pure il Padreterno. In verità qualche tentativo di suonare serio l'avevano pure fatto, ad esempio la stupenda "The World by Storm" sull'omonimo eccezionale album del 1986 che raggruppava anche i migliori singoli: una sorta di Echo and Bunnymen che attraversano i sette mari in un mondo in tempesta dove nessuno è innocente.
E allora perché questo babbeo di recensore ci parla di "The Death of Everything" di due anni più tardi? Perché è il disco dove raggiungono l'apice del cinismo musicale con i tre grotteschi giullari in copertina che sembrano sfottere con un ghigno l'ascoltatore....povero fesso, il tuo mondo va a puttane e tu compri ancora i dischi! E giù i bagliori metal/industriali di "The King is Dead" con le astratte pennellate funk cariche di tribalità. Musica che fa muovere il corpo e la mente con la trascinante fiammata punk "Bullshitiaco", la parodia glam di "Fast Fish" o il reggae dubbato di "Go Ahead Bikini", che sfila il bastone dal culo di Paul Simonon e lo lancia ancheggiando sulla pista da ballo in un vortice di ritmi sincopati che destabilizzano il nostro apparato uditivo.
Con testi feroci sospesi tra l'eversivo attacco contro il sistema e il dubbio esistenzialista di stare solo a perdere tempo ("Cos'è il fascismo, padre?" ..."Zitto e ingoia le pillole antidepressive!"), The Three Johns sono capaci di mettere su un baraccone elettrico rammendando con filo metallico policromie e melodie come i vecchi XTC votati alla causa e non mollemente stravaccati nell'erba di "Skylarking". Non a caso terminano il disco con gli accecanti clangori metallici di "Never and Always", qui la produzione del mastro dubbarolo Adrian Sheerwood li spinge nei territori litanistici dei Public Image Ltd.con un cantante che non ha i denti marci come Johnny Rotten/Lydon ...e si sente.
Magari il mondo andrà a puttane e sarà la fine di ogni cosa, ma almeno moriremo con il dito medio ben in vista e con un ghigno sul volto.
Fottetevi, bastardi.
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