La produzione discografica degli arizoniani Tubes è divisa in due distinte fasi: la prima vede il gruppo lavorare a fine anni settanta per la casa discografica A&M ed è ferocemente post-punk e post glam: satirica, corrosiva, polemica, spettacolarissima e pure discretamente pornografica (sul palco i sette musicisti sono coadiuvati da ballerini, attori, spogliarelliste, costumi e scenografie). La seconda, dopo il passaggio all'altra multinazionale Capitol ed una ridefinizione delle strategie, li vede darsi una parziale regolata e cercare di passare all'incasso, sposando la causa assai meno genialoide ma molto più alla moda dell'AOR anni ottanta, mantenendo in ogni caso una gran verve ed una robusta quota di teatralità nei sempre energici e bislacchi spettacoli dal vivo.

Il disco in questione è il sesto in carriera, il secondo della fase due sopra descritta. Il gruppo si mette nelle mani di un produttore pop, David Foster, che ripulisce e arrotonda suoni ed arrangiamenti, rendendoli molto mainstream (per gli anni ottanta) ed accessibili. Viene però completamente cannato il missaggio: povero di frequenze medio basse e quindi discretamente asfittico, non riesce a dare alle nuove canzoni il gigantesco groove che i Tubi da sempre avevano dimostrato sin lì. E dire che il volitivo bassista Rick Anderson ed il batterista/grafico Praire Prince (ci pensa lui a costumi e scenografie, ma è nel contempo devastante la lista di gente che ha beneficiato del suo talento ritmico... basta accennare a Jefferson Starship, Cars, Journey, Todd Rundgren, Brian Eno, Tom Waits, George Harrison e Journey), formano insieme una vera macchina da guerra.

Questa banda è da considerare fra le migliori al mondo a livello di efficacia scenica e spettacolarità, un tripudio di costumi sgargianti e osceni, salti e balli, pedane semoventi a girare per il palco con sopra i singoli musicisti (compresa la batteria e i due castelli di tastiere) in piena azione. E poi la musica: ancorché piegata ad esigenze teatrali, quasi da vero e proprio musical, purtuttavia risulta consistente e strutturata in canzoni rock complete e compiute... Impossibile descrivere un concerto dei Tubes, bisogna essercisi trovati in mezzo, siamo a livelli Zappiani, ma in quattro quarti e senza (quasi) partiture cervellotiche.

Di tutto ciò veramente una parte minima resta su disco, compreso questo album che è malgrado tutto brillante e ispirato. La piega funky/disco/rock, di cui sono farciti e rivestiti il rhythm&blues ed il punk alle radici della loro ispirazione, non cancella la ancor buona vena compositiva (dovuta principalmente a Billy Spooner, uno dei due chitarristi), l'efficacia dei testi, l'eccelso lavoro dei due tastieristi (che sostanzialmente si suddividono gli strumenti: Vince Welnick crea le basi con pianoforti, organi, strings e brass, Michael Cotten smanetta da esperto sui sintetizzatori e aggiunge gli effettismi, i sibili, i soffi, i bordoni, gli assoli), la grande grinta del frontman Fee Waybill, dal timbro assai vicino a quello di Roger Daltrey degli Who (accento americano a parte).

L'opera vendette assai negli USA grazie due suoi hit: primo di essi l'opener "Talk To You Later", un hard rock veloce, mezzo funky e mezzo AOR, che rema forte verso i Toto, non foss'altro perché il chitarrista di questi ultimi Steve Lukather, amicone di Waybill, dà una mano nella composizione ma soprattutto stampa un assolo incredibile, per certo fra i suoi migliori, rivoltando la canzone come un calzino e facendola viaggiare come un missile!

L'altro episodio in grande evidenza è il lento "Don't Want To Wait", molto pomposo e in stile broadway, tanto da essere cantato dall'autore Spooner visto che il titolare Waybill non lo sente nelle sue corde. Fa parte di quel genere di ballate che si nascondono tranquille nella strofa per poi esplodere il loro gigantesco ritornello, a sei voci, veramente lussureggiante, condotto dal bravo Spooner con un piglio da crooner, decisamente fuori contesto con tutto il resto della produzione Tubes del prima e del dopo, ma tant'è: se si è molto melodici come gusti, il brano risulta mirabile.

Ne ho visti, di concerti... il ricordo di quello dei Tubi a Bologna è tuttora ai miei vertici assoluti di gradimento e gratitudine. Diciamo tra i primi cinque, insieme a variegata compagnia (butto lì Fairport Convention, Gentle Giant, Tempest, Bruce Cockburn...). Avrebbero meritato ben più che una buona notorietà in America ed uno scarsissimo seguito europeo. Questo disco non li rappresenta degnamente, ma forse nessuno ne ha colpa, è impossibile infilare i Tubes dentro un pezzo di plastica o un file audio, troppo visuale e multimediale il loro approccio artistico.   

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