La parabola disegnata dalla carriera dei The Used riassume in se tutti gli elementi caratteristici di qualcosa che poteva essere, ma non é stato. Un esordio da capogiro con un disco omonimo fra le migliori pubblicazioni alt-rock del 2002, una manciata di uscite buone ad ammiccare al mainstream ed il conseguente discreto livello di popolarità ottenuto grazie ai singoli piazzati nelle soundtracks di "Saw II" e "Transformers".
Poi, qualcosa nei meccanismi che garantivano il pur delicato equilibrio interno alla band, si é inceppato. Le ombre hanno smesso di costituire mera cifra stilistica, intrecciando una danza fra loro, divenendo improvvisamente un vortice che ha masticato, spolpato e risputato i nostri, lasciandoli al margine del viale delle promesse non mantenute. E Dio solo può sapere come gli ex ragazzi prodigio dell'emocore siano usciti ammaccati, ma tutto sommato indenni, dalle dipendenze e da una serie di cambi in line-up tanto repentini quanto decisamente poco funzionali alla fisiologica, inevitabile e sempre fatidica fase di sgancio da certi retaggi che, a seconda della condotta, ha detto molto ed in taluni casi ha rappresentato una scure sul proseguo dell'attivitá di formazioni dello stesso stampo.
Nella fattispecie é servito pazientare fino a "The Canyon" (2017, Hopeless Records), prima di tornare ad ascoltare qualcosa di non indifferente da Bert McCracken e soci, ed é nel segno di questa rinnovata fiducia che approccio ad "Heartwork". In fin dei conti, gli elementi per costruirsi aspettative più che decorose ci sono tutti: "Blow Me Away" é il singolo che anticipa il disco, compendio in 3:22 degli scintillanti trascorsi, delle influenze mai del tutto dimenticate fra i riferimenti musicali della band e dei passi in avanti verso il cambio di rotta; una solida sezione ritmica, un muro di chitarre attraverso il quale fanno breccia le incursioni schizofreniche dell'ultimo arrivato Joey Bradford (ex Thrice ed Atreyu), linee vocali semplici ma comunque efficaci costituiscono gli onori di casa che si convengono al guest Jason Butler, sul cui ingresso viene apparecchiato un breakdown di 'deftonesiana' memoria.
Il ritorno dello storico produttore John Feldmann in cabina di regia a due dischi di distanza dall'ultima collaborazione, l'esordio su Big Noise (della quale lo stesso Feldmann é fondatore ed A&R) ed una serie di collaborazioni che non possono che far venire l'acquolina in bocca, completano il corredo di elementi di cui sopra.
Eppure, ancora una volta, coerentemente con le ultime uscite sulle quali ho riversato ogni speranza, mi sento preso per il culo. Peggio, perché i The Used mettono sul piatto tutto ciò che mi aspettavo di non sentire più da loro, ma proposto nella maniera più intelligente, raffinata, genuinamente provocatoria mai sperimentata prima. Si prenda "1984(infinite jest)", ad esempio: la spiccata sensibilità melodica che ha fatto la fortuna della band si fonde con richiami hardcore, in un crescendo che proprio quando ci si aspetta debba esplodere nel più selvaggio dei refrain, si inabissa invece in sottomondi quasi industrial metal, attraverso la cui penombra il verso sussurrato 'ignorance is this' risuona pura dissonanza nella dissonanza.
Le prospettive si capovolgono, "Gravity's Rainbow" non é immagine latente bensì il suo negativo, e tutto ciò che poteva suonare familiare, nel bene come anche assolutamente nel male, questa volta si prende la scena e lascia ai contorni il ruolo che compete loro: il margine. C'è una sola, rassicurante costante che accomuna "Heartwork" a tutti gli altri lavori dei The Used ed é il groove di Jeph Howard. Si diverte, il solo superstite della formazione originale assieme a McCracken, a prendere a 'shuffle-ate' il synth fino a farne meno che un comprimario nella danzereccia "Clean Cut Heals".
Non sono solo suoni, sono contenuti, l'intrinseca connessione di Bert con la sua stessa arte è rimasta immutata. Anche se non sta vagando nel ventre squallido della propria psiche con la stessa intensità di una volta, lo spoken words del brano che battezza il disco é una proiezione abbastanza fedele di quella che dev'essere stata la vita ad Orem per un ragazzino alle prese con la dottrina mormone e le pressioni dovute al mantenimento dello status quo. Altrove, altri riferimenti autobiografici, condivisi col secondo ospite (Caleb Shomo dai Beartooth): "The Lottery" é il manifesto della poetica primordiale dei The Used, che prende il nome e l'ispirazione nella stesura del testo dal racconto di Shirley Jackson su di una cittadina immaginaria caratterizzata da una bizzarra tradizione annuale, quella di selezionare un residente a caso da lapidare a morte, come a voler rappresentare la rottura del cordone ombelicale, il vicendevole ripudio fra il frontman e la stessa comunità dello Utah.
Aleggia l'ingombrante fantasma dei primi due dischi e non potrebbe essere diversamente, le poche zone d'ombra lasciano scoperte le polarità opposte del suono dei The Used, la sensibilità più prettamente pop e la radice hardcore del combo. Si rimbalza dalle sonorità di "BIG, WANNA BE" portate in hit parade dal recente Tom Walker a frangenti più facilmente collocabili in un qualunque punto della loro discografia come "Obvious Blasé", all'interno della quale il featuring di Travis Barker alle pelli passa colpevolmente inosservato. Addirittura, come già accaduto in passato con brani come "The Bird And The Worm" e "Wake The Dead", le influenze del celebre Danny Elfman contribuiscono ad aggiungere teatralità all'interpretazione dei frequentissimi riferimenti letterari ricorrenti nei testi, da sempre il vero plus nell'avere un songwriter come McCracken in line-up.
Se c'è un merito che andrebbe riconosciuto ai nostri, é quello di riuscire a mandare in tilt ogni tentativo di etichettatura in maniera sistematica, maneggiando un ventaglio di generi musicali decisamente ampio. Ad un certo punto, però, e questo album é emblematico in tal senso, ci si accorge che questa innata maturità creativa, combinata alla forsennata pretesa sperimentale, crea puntualmente delle confuse aspettative nei passaggi salienti della tracklist. Così l’imprevedibilità si fa' perdita dell'orientamento, e solo un numero di repeat che non può non prescindere da pazienza e predisposizione d'orecchio permette di inquadrare "Heartwork" con una visuale d'insieme leggermente più esauriente.
Il bicchiere é comunque mezzo pieno, l'ardore dei primi tempi é tornato a vibrare nelle canzoni mentre i The Used osservano l'abisso che si sono lasciati alle spalle ostentando ispirazione da tutti i generi musicali senza il minimo pregiudizio. É la parte mezza vuota del bicchiere, semmai, a preoccupare seriamente. A cosa serve essere una band composta da chitarra, basso e batteria se si suonano metà dei pezzi di un disco? Quale senso può avere continuare a pubblicare musica che non può rendere un approccio compositivo tanto intimo e personale in sede live? Fino a che punto è lecito affidare al synth ed ai canoni EDM interi brani? Magari saranno gli stessi The Used a sciogliere le resistenze a questo trend così fastidioso. Magari...
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