Gli anni 90 causarono uno sconquasso nel panorama indie americano: “Nevermind” aveva cambiato le carte in tavola, e da lì ebbe inizio una morbosa attenzione delle Majors, alla ricerca di altre galline dalle uova d’oro.
Ciò si riverberò nelle qualità delle proposte americane indipendenti, spesso accecate dalla prospettiva di un riscontro commerciale più ampio. Tuttavia, nell’immenso sottobosco statunitense, non mancavano mosche bianche capaci di proseguire nella loro ricerca sonora senza distrazioni. Si poteva persino trovare un gruppo capace di rifiutare un contratto da 3 milioni di dollari con la multinazionale di turno. Quel gruppo erano i Van pelt.
Capitanati dal carismatico cantante-chitarrista Chris Leo, il gruppo newyorchese aveva debuttato nel 1996 con l’eccellente “Steling from our favorite thieves”: sopraffino lavoro di rumore bianco, attento nel non replicare pedissequamente le intuizioni no wave e dei Sonic Youth. Ma fu nel 1997, col successivo “The Sultans of sentiment”, che i Van Pelt incisero il loro nome nella storia dell’indie rock USA, forgiando forse il lavoro migliore di quel genere nella seconda parte della passata decade. Quali sono le prerogative di tale capolavoro (epitaffio della loro carriera: Leo sciolse il gruppo subito dopo, per tentare l’avventura con gli ottimi The Lapse) ?
Una miscela sonora intrigante, al crocevia tra alcune delle migliori cose del rock a stelle e strisce (le spietate aggressioni degli Slint, le frammentazioni melodiche sbilenche dei Pavement) e squisite atmosfere di matrice albionica (dagli Smiths omaggiati in “We are the heathens” a certe plumbee reminiscenze elettro-wave, come in “Young alchemists”). Molti li paragonarono ai Radiohead, ma all’epoca Thom Yorke e soci non avevano ancora fatto un disco così. Chris Leo aveva poi un approccio meno autoindulgente rispetto a Yorke, con testi surreali ed elusivi, pregni di un immaginario da adolescente annoiato. E una voce favolosa, isterica e dolcissima allo stesso tempo.
Non li hanno mai apprezzati in tanti i Van Pelt, ma l’ascolto dei loro dischi è cosa che andrebbe consigliata a chiunque. Come non restare annichiliti da quelle chitarre torbide che avvolgono una “The good , the bad and the blind” da urlo, dal folk bislacco di “Don’ t make me walk my own log”, dai prodromi emocore di “Nanzen kills a cat” e “Pockets of pricks” o dall’incredibile congerie di spleen e intuizioni melodiche che avvolgono la conclusiva “Do the lovers still meet at the Chiang-khai shek Memorial ?”: una di quelle ballate che solo Greg Dulli sapeva scrivere.
Passione, emotività, rabbia, tutto condensato in un vortice chitarristico fluido, plasmato da un Chris Leo all’apice della sua arte. Non li dimenticheremo, questo è certo.
Carico i commenti... con calma