Terzo disco ufficiale per la famosissima, almeno ai giorni nostri, band capitanata da Lou Reed ed ultimo capitolo degno di nota per questa seminale ed imprescindibile formazione americana. Dopo il fulminante debutto giocato su sperimentazione Rock e formato Pop, su tetre litanie e su ariose melodie, su passaggi angelici (chissà perchè penso a Nico) e su vere e proprie discese nel basso degli inferi (chissà perchè penso a Reed) e dopo il mitico e dissonante "White Light, White Heat", prima opera di Noise Rock a parere di chi scrive, ecco il disco della maturità e del compimento totale del proprio sporco mestiere.

"Velvet Underground" si discosta, quindi, dagli estremismi precedentemente sperimentati per approdare ad un sound acustico e meditato, figlio di mille delusioni e di mille riflessioni. Manca la Beatrice dell'inferno Reediano ai più nota come Nico, che comunque non compariva nemmeno nel precedente capitolo targato Velvet Underground, manca il misterioso ed emblematico John Cale ma la formazione, nel suo complesso, non è stata stravolta. Oltre al già citato frontman c'è ancora il mitico Sterling Morrison alla chitarra, l'indimenticabile Maureen Tucker alla batteria ed un nuovo bassista, tale Doug Youle.

Parliamo, ora, dell'aspetto prettamente musicale del disco, dato che questa è una recensione musicale e non una di quelle noiosissime e ben note biografie da due soldi che, troppi, oggigiorno immettono nel Web.

E proprio "musicalmente parlando" si notano delle non certo trascurabili novità in questo terzo capitolo dei newyorkesi più famosi del Rock, novità che ci fanno capire come i nostri siano sempre stati, in realtà, amanti del suono acustico e di una certa attitudine cantautoriale.

Infatti in quest'opera non c'è un solo richiamo al fragore chitarristico di "White Light, White Heat" e non è nemmeno rintracciabile un solo elemento significativo  in grado di rinverdire i fasti del loro imprescindibile debutto. Musica pacata ed acustica,come già scritto, contraddistinta da una lieve malinconia e da una delicatezza inusuale. Musica che gli aficionados dei Velvet "prima maniera" disprezzeranno ma che, se ascoltata con il cuore, potrà suscitare mille emozioni. Ed è poprio su questo album che Reed, Morrison e Tucker (lasciamo perdere l'infausto Youle) propongono brani oggi famosi ed apprezzatissimi come "Candy Says", "Jesus", "After Hours" e la struggente "Pale Blue Eyes".

Un disco da ascoltare con calma e da assaggiare come un buon vecchio vino, magari di fronte al caminetto e magari in compagnia della propria solitudine. Qualche anno dopo uscirà il deludente "Loaded" ma questa, come si suol dire, è tutta un'altra storia e segnerà il declino compositivo del velluto sotterraneo.

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