Normalmente preferisco recensire robe nuove. Avendo sempre patito le celebrazioni truffaldine delle riviste d’antan il cui senso conclusivo era immancabilmente “se non hai questo disco sei un coglione” - ragion per cui appena finito di leggerla correvo a comprare il disco in questione per poi darmi del coglione ad averlo non appena due tracce erano scivolate sotto la puntina - mi piace pensare di poter dare un parere alternativo (che so: “questo disco è una merda”) ed evitare a chi legge sprechi di denaro.
‘Sto giro però mi è capitato sottomano un reperto archeologico e ho deciso di recensirlo listesso tanto per raccontare due righe di avvenimenti musicali d’altri tempi...

Di chi si parla? Di "Squeeze", el senor quinto disco dei Velvet Underground, uscito nel 1973 non da Lou Reed o da John Cale ormai partiti per le loro sfolgoranti carriere soliste, non da Moe Tucker, andata a fare la mamma e la cassiera di supermercato e nemmeno da Sterling Morrison in Texas a fare il professore prima e il capitano di battelli poi, ma da un certo Dug Yule, un ragazzo di Boston, all’epoca ventunenne, che da tempo bazzicava nell’orbita dei Velvet e che finì per essere preso e affondato dal gorgo discendente che li portò via per non lasciarli più affiorare fino al ‘93 (ma questa è un’altra storia).

Spediti prima Nico e poi Cale, già dal ‘68 Lou Reed aveva cooptato nella band questo giovane talentuoso polistrumentista bostoniano, emerso nella band Green Menagerie, e a cui si riferiva come “my younger brother”.
Divenuto come riporta unanimemente la critica un elemento più che importante per le esibizioni dal vivo della band dove cantava quando la voce non permetteva a Lou già allora di far più di tanto, tracce più che pesanti della presenza di Yule nelle incisioni dei Velvet si trovano in tutto quello che Reed - andando verso il ‘70 ormai svogliato e stanco - gli ha lasciato fare e che Yule ha eseguito senza interpretare, con più mestiere che sentimento (e sicuramente senza capire a fondo la vena malata che aveva prodotto quei pezzi), primo di una serie di talentuosi dalla cui vicinanza Lou ha sempre tratto supporto e ispirazione (o sfruttato cinicamente) per rilanci artistici in momenti di magra (David Bowie, Robert Quine, Mike Rathke), molto simile in questo ai sodalizi che oltremanica era uso stringere Bowie stesso (Tony Visconti, Mick Ronson, Carlos Alomar, Reeves Gabrels). L’ammorbidimento di “The velvet underground” rispetto al precedente “WLWH” fa così da prodromo alle sonorità di “Loaded”, lavoro su cui finalmente Yule è accreditato e dove la sua mano e la sua voce si sentono, e forse anche troppo (è risaputo che canta tre delle quattro canzoni belle dell’album e la mano su molte delle parti di chitarra è la sua), ma d’altronde di lì a poco Lou avrebbe lasciato il carrozzone anche lui quindi forse non gliene fregava più niente...

Rimasti quindi Moe e Sterling con Doug Yule al timone - e il manager Steve Sesnick dietro le quinte a cercare di lucrare su un nome che cominciava a vendere quando chi l’aveva creato aveva ormai deciso che non gli apparteneva più - ecco che questi tristi epigoni dei Velvet reclutano l’ex band mate di Yule, Walter Powers (basso), e toureggiano in Europa per promuovere “Loaded” e cercare di convincere la Atlantic a far loro fare il secondo e ultimo disco previsto dal contratto.
La Atlantic preferirà far uscire “Live at Max’s Kansas City” e così nel ‘71 anche Morrison lascia e arriva un altro ex-Grass Menagerie, Willy Alexander (tastiere) con cui la band continua a suonare fino all’estate del ‘72, quando Sesnick negozia un nuovo contratto con la Polydor, spedisce tutti, si tiene solo Yule e lo chiude in uno studio di registrazione inglese con Ian Paice (sì, esatto, proprio LUI) un certo Malcom Duncan a fare le parti di sax e una corista rimasta sconosciuta. Yule suona tutti gli altri strumenti e compone, arrangia e produce tutti gli 11 pezzi dell’album, che esce nel febbraio ‘73 in Inghilterra, Francia, Spagna e (dicono) in Germania. Non sarà mai stampato negli Stati Uniti e non è mai stato ripubblicato su cd (presumibilmente per evitare controversie legate all’uso di un nome così ingombrante).

La mano sulla cover non stringe una banana ma un grattacielo e così come qui non c’è Andy Warhol, nelle tracce del disco non ci sono i Velvet Underground. Yule è bravo e dotato, ma non è nè Reed nè Cale e sicuramente non era dotato della profonda ispirazione aggressiva e schizoide che fa dei due gli artefici dei capolavori che conosciamo. Se è vero come scrive qualcuno che “Squeeze” riprende da dove “Loaded” aveva lasciato, è per continuare non magari al ribasso, ma sicuramente in un’altra direzione, che porta lontano dalla notte dell’anima newyorkese per dirigersi verso spensierate giornate di sole che coi Velvet “veri” non c’azzeccano: questo avrebbe dovuto essere il primo disco solista di Doug Yule, ma certo il nome era meno spendibile, e Mr. Sesnick non avrebbe potuto “strizzare” fuori ancora quei pochi dollari.

Tra gli sprazzi country e i suoni di chitarra che già ci aveva fatto sentire in “Loaded” e accenni beatlesiani (“Crash”), oscillando tra pop (in molte parti voce-piano mi torna in mente il Bowie di “Hunky Dory”) e tipico rock ‘70 (“Mean old man”) e infarcite di coretti che a tratti ricordano “Sympathy for the Devil”, le 11 canzoni di Yule - pur non demeritando per se - sono purtroppo un fallimento annunciato, dove si sente che c’era uno bravo che però ha fatto tutto da solo, confezionando materiale onesto (“Little Jack”, “Caroline”, le due canzoni già demizzate nel ‘71 “Friends” e specialmente “She’ll make you cry”) ma non eccezionale, diventando così - se mi si passa il paragone, valido per il risultato - un altro Jobriath. Tutto considerato, sicuramente uno spreco, perché il buon Doug bravo era bravo: la band che metterà insieme per promuovere il disco in arrivo suonerà in Europa fino alla fine del ‘72, ma dopo l’uscita ed il fallimento commerciale di “Squeeze” anche lui lascia perdere. Suonerà ancora un po’ con Lou stesso (su “Sally can’t dance”), con la band American Flyer in attività fino al ‘77 e poi scompare per vent’anni ritornando poi sulle scene con apparizioni comunque sporadiche. Un album di un suo concerto del 2000 è stato pubblicato in Giappone (“Live in Seattle”). Oggi vive a Ithaca, NY, e costruisce violini, o almeno così dice Wiki-P.

Senza voler essere così crudeli come quell’anonimo bloggatore che scrive: “I can forgive Doug Yule for almost negating the greatness of such songs as “New Age” and “Oh! Sweet Nuthin’” with his vacuous readings and clueless deliveries, but using The Velvet Underground name for such pedestrian, uninspired material as “Squeeze” is inexcusable”, e senza arrivare agli eccessi di recupero per cui ogni cosa di trent’anni fa dev’essere bella per forza, possiamo sicuramente essere d’accordo con quest’altro che scrive: "If you are suspecting another raw and cold-hearted velvets album (...) "Squeeze" doesn’t sound like the Velvets at all. With the absence of the two insane, cynical, and depressed song-writers, John Cale and Lou Reed, The Velvets are free to explore (...) a happier and carefree direction”.

Un bel contributo sulla diatriba se questo debba/possa/voglia/etc. essere considerato un album dei Velvet, se vi va lo potete leggere aqquà:

http://www.sentireascoltare.com/CriticaMusicale/

Side A

Little Jack
Crash
Caroline
Mean Old Man
Dopey Joe
Wordless


Side B

She’ll Make You Cry
Friends
Send No Letter
Jack and Jane
Louise

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