E pure quest'anno Natale e Capodanno me li sono levati dalle balle con gran sollievo e me sono andato a nanna ben prima che si svegliasse messer Satanasso.
Solo che, al risveglio, mi è rimasta una sensazione amarognola, e non era lo zampone colle lenticchie, no, piuttosto il 2021 andato in fumo; perché quell'infingardo mi aveva allettato con la speranza che sarebbero tornati gli amati Walkabouts, trascorsi invano 10 anni giusti giusti dall'ultima volta che mi si pararono dinanzi e mi fecero spazio al loro fianco per un viaggio breve ma intenso nelle terre polverose.
Poi Carla Torgerson s'è eclissata e Chris Eckman ha preso altri sentieri – in solitaria, con i Dirtmusic, a fianco dei Tamikrest – pure se i Walkabouts hanno sempre idealmente camminato al suo fianco.
I Walkabouts.
In origine l'alibi morale della Sub Pop per discolparsi delle nefandezze di quei buzzurri di Tad Doyle e compagnia: durò cinque album, tra Stati Uniti e Germania.
Poi la Virgin, e un album – «Devil's Road», ventisei anni fa, era il 2 gennaio 1996 – aperto da quella cosa indefinita che è ancora oggi la canzone, la ballata, la poesia, sia quel che sia, più straniante che mi sia capitato di ascoltare in tutti questi anni, ed il bello è che ha pure un titolo «The Light Will Stay On».
Ecco, sono ventisei anni oggi che amo i Walkabouts, Carla, Chris e tutti coloro che sono transitati per quelle fila. Ventisei anni, oltre mezzo cammino della mia vita, ed inizio a contarli ad uno ad uno: uno per la mia tristezza, due per il mio sudore, tre per ognuna delle storie inusitate e mai dimenticate …
Conta anche tu e fammi sapere quando, perché, per come e per cosa sei arrivato a ventisei.
Io intanto vado avanti.
Perché, dopo la Virgin, siamo al saluto definitivo ai colossi dell'industria discografica e l'approdo presso gli artigiani della Glitterhouse, altri cinque album, tra il 1999 ed il fatidico 2011.
E se è vero come è vero che la somma fa il totale, sono allora tredici album in trentaquattro anni.
I Walkabouts sono quelli che in tredici album non sono riusciti a ficcarci una canzone brutta, per me sono questo e solo questo.
Per tutti gli altri sono quelli del “rock del deserto” ma la cosa non mi ha mai convinto del tutto, per me che il “rock del deserto” è cosa dei Thin White Rope nel nuovo mondo e dei Died Pretty nel mondo agli antipodi.
Per i Walkabouts, più che la sabbia, è questione di polvere, quella stratificata su mobili e pavimenti e vestiti e ricordi; e, se proprio deserto dev'essere, è il deserto che ho dentro, il deserto dell'anima, come ebbe a dirlo Carla a proposito di «Travels in the Dustland», in viaggio nelle terre polverose, per l'appunto, quelle che non trovo segnate su nessuna mappa, mi chiamano, bruciano e sono andate. Forse la Slovenia è una di quelle, ma non ci sono mai stato per cui non ci metto la mano sul fuoco.
Poi, a voler essere meno filosofo e più terra terra come mi conviene, l'etichetta di “rockers desertici” appiccicata ai Walkabouts non mi ha mai convinto del tutto anche perché nei loro album di sarabande acide e cavalcate elettriche ho trovato ben poche tracce, essendo popolati piuttosto di una tradizionale fusione di rock, blues, country e folk resa con impareggiabile gusto cantautorale, tra Neil Young anni Settanta e Nick Cave ripulito ma non troppo.
Tutto dentro le undici tappe di questo viaggio nelle terre polverose, sei anni dopo «Acetylene», la ruggine, la rabbia incredula, come è possibile che Carla e Chris abbiano lo stesso passaporto di chi ha votato per il giovane Bush.
Undici tappe di un viaggio necessario anche per acquisire ulteriore consapevolezza e l'ennesima certezza di come gira la storia, sempre male, sempre peggio.
Tre ballate lo aprono, segnano la strada fatta e quella ancora da fare a metà dell'opera e chiudono infine la vicenda, «My Diviner», «They Are Not Like Us» e «Horizon Fade», una più bella dell'altra, la voce di Carla a guidarmi altrove, perché una cosa è certa a questo punto, che le terre polverose che cantano i Walkabouts non sono di questo mondo, altro che Slovenia e Slovenia d'Egitto.
In mezzo, l'epico manifesto «The Dustlands» e l'impeto quasi garagista che scompiglia «Soul Thief», come se lo spirito di Jeff Connoly abbia invaso Chris; e una «Thin of the Air» che in un qualsiasi album di Cave ci starebbe a meraviglia, per me da qualche parte tra «Your Funeral … My Trial» e «Tender Prey»; e «Long Drive in a Slow Machine», semplicemente splendida, la suggestione è forte, i Green On Red sulla strada di «Gas, Food, Lodging» se solo fossero stati i Walkabouts; e lo scossone rabbioso «No Rhyme, No Reason»; e le eteree «Every River Will Burn» e «Wild Sky Revelry».
Fosse l'ultima apparizione dei Walkabouts, indosserei un cappello solo per il gusto di metterlo giù ed omaggiare una carriera ed un disco impeccabili.
Però è la solita storia che continuo a comprare dischi sperando un giorno di incappare in qualcosa del genere, e allora pure il 2022, la speranza è che i Walkabouts mi si parino nuovamente dinanzi a propormi un viaggio ovunque sia, altri 363 giorni, dai.
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