Quella poesia che ti pugnala alle spalle.

Piogge quotidiane e passeggere. Gocce che ti si appiccicano addosso come la mononucleosi. In bocca un sapore umido di muschio al mattino. Prati di montagna a pascolo che terminano a strapiombo su alte scogliere a picco sul mare.

Non è aulica, non è epica, è popolaresca, maledettamente vera, visionaria, intuitiva e noetica. Che attanaglia l’anima. A riccio. Come quei cazzo di fossili a chioccia nei musei.

Ma qui la musica è donna, immensa, e i suoi occhi ci guardano di sfuggita.

Perché i Waterboys non tramontano? Una volta per tutte. Due capolavori come “This is the Sea” e “Fisherman Blues”; cos’altro c’è da fare, oggi? Riciclare, rimpiangere? Ammalarcisi sopra? O la via onesta di fare il tuo lavoro di tutti i giorni, con porca serietà e rispetto. Ogni giorno strimpelli il piano, imbracci quella chitarra, perché è il mestiere che ti han fatto piovere addosso il fato e la necessità. Con quegli occhi fottuti che guardano il mare e cercano le sirene.

Chi tocca troppe volte il cielo rischia di bruciarsi, come chi si consuma ascoltando troppo quei richiami tra i flutti.

Oggi le pubblicazioni dei Waterboys, dal lontano 83, sono quindici. E, cosa strana, ben nove dopo il 2000. Un album è uscito addirittura quest’anno (“Where the Action is”)! “Modern Blues” è quello uscito nel 2015, stampato per intercessione della Harlequin and Clown.

Ecco. Mi ero fatto arrivare il cofanetto “This is the Sea/Fisherman Blues”, doppio cd usato, dal Regno Unito prima della Brexit, quando il francobollo costava meno della metà. Ottimo affare. Solo che poi il Blues non era quello del vecchio Pescatore, era il Blues Moderno. Cazzo! I tizi dello store, non stretti di manica, pur di sganciarmi la spuria reliquia, si proposero di restituirmi il 75% della somma versata, incluso il trasporto. E placet fu.

Certo; la poesia sognante che ti bacia sulla bocca, con tempesta e furia, e la chiami magari Celtic Rock o Folk Rock o ipertrofica Big Music, è altro.

Ma che diamine! Domineddio!

C’è subito una buona notizia. Il cantante è sempre lo stesso. Mike Scott, sì. Lo spirito fulgido, arcaico, senza tempo, c’è. Saltellante, galvanizzato, appacificato, sapiente. Che musica farebbe Giobbe dopo tutte quelle sfighe? Facile. Questa. Il Classic Rock e il Blues. Un suono caldo, ammansito, con tastiere scalpiccianti, vorticose (e vintage, l’Hammond!), elettrica ficcante (prodiga di assoli seventies), percussioni sostenute. C’è pure Jack Kerouac che legge un brano di “On the Road” (in “Long Strange Golden Road”). Ma ci guida la voce di Scott, piena di marosi, gorghi, e spiagge aspre, incontaminate, dove una mamma robusta cinge e accompagna il suo piccino a bagnarsi i piedini incolumi nell’Oceano.

Perché Mike Scott è Giobbe, è Sal Paradise, è un po’ materno. E il suo Blues suonato moderno va bene così com’è.

Ma che cazzo avrà la gente da metterti sempre alla prova? Sempre a caccia dei tuoi passi falsi.

Che poi Scott canta ancora proprio bene. E scrive bene:

“Sono ancora un freak/ … Non cantare ora le mie lodi, tesoro/ Fallo quando sarò morto/ Non sono amareggiato, ma non sono fiducioso/ … Non sono ancora stato imbavagliato/ Sto ancora battendo bandiera”.

“Lei incominciò un viaggio acre al confine/ Là dove l’ho corteggiata e vinta./ Lei era Afrodite, Elena, Teti,/ Eva tra i satiri/ Era Venere in un maglione con scollo a v/ Era tutto ciò che contava”.

“Ho fatto colazione con gli dei/ In una mattina d'estate arrossendo/ Fino a quando un vento li ha spazzati via tutti”.

“La nuova terra giaceva come l'Eden/ Sotto i miei piedi affamati/ … La sua gente era così nobile nella sconfitta/ … Ho preso una vanga e mi sono offerto volontario”,

Scrive bene, sì. Senza quel cazzo di livore dei divi, ammorbati da machismo e narcisismo, che si lagnano perché gli hanno tolto il buco dal culo. Tenetevi stretti i vostri plantari e il vostro pacco. Io seguo la “creatura della strada/ il figlio della polvere e del dolore”. Scott è un grande. Scott è un bardo. Te ne accorgi col tempo o quando vedi lo spaventapasseri, in copertina, in mezzo alla lavanda.

Così “Still a Freak”(un boogie), “I Can See Elvis” (un Blues e una visione: “Vedo Elvis parlare di filosofia e legge con Giovanna d'Arco e Platone”), “Destinies Entwined” (una cavalcata rock) hanno quel piglio roboante, spostato, incombente, sconfitto ma dopo l’aver lungamente lottato, che ti fa ancora palpitare con rabbia e amore. Superstite a un mondo di valangate di merda. Oppure ci trovi un po’di Soul, folk quasi dylaniano, violini e quella limpida ballatuccia, “The Girl Who Slept For Scotland”, che ti lascia secco.

C’erano i ragazzi che amavano il vento da quelle parti (Shelley, Keats e Byron); tu guarda che bei nomi: Percy, John e George. Cantavano “le foglie morte”, cantavano “turbe colpite dalla pestilenza”.

Ma come si fa a non commuoversi per i ragazzi dell’acqua? Quelli se ne fottono se le onde sono fatte per il vento o, peggio, per il surf (vedi gli usi negli USA dei ragazzi della sabbia). Quelli stagionano il whiskey nelle botti di rovere, con animo indefesso e cuore a volte ottuso; il naso all’insù su sentieri invisibili , aspettando di abbassarlo solo quando sentono l’orzo maturo. Così come sempre. Così come dopo le impareggiabili annate 85 e 88.

E Scott, alla fine, canta ancora la musica nella sua musica: evoca Elvis, Keith Moon, Charlie Parker, i Crazy Horse (un vero paradigma di riferimento per questo LP), Marvin Gaye e John Lennon, tutti invaghiti per la stessa musa. Così nomina Sun Ra, Miles e Coltrane come quando cantava “The Return of Jimi Hendrix” o additava la Grande Musica. Non sei solo. Neanche per 1000 miglia marine o 870 terrestri.

Che tanto, con la coda dell’occhio, quella fanciulla ti guarda ancora. E tu sei per lei quello che lei è per te.

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