Sono convinto che un certo tipo di rock abbia avuto la sua era migliore fra la fine dei '60 e l'inizio dei '70. Se si pensa ai dischi usciti nel breve periodo che va dal '67 al '73 non si può che rimanere estasiati da tanta abbondanza e qualità. The Doors, Velvet Underground, Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Rolling Stones, Pink Floyd, Stooges sono solo alcuni degli artisti che in quel breve periodo di tempo hanno pubblicato praticamente tutti i loro dischi migliori, o quasi. Ma oltre ai nomi citati, che già basterebbero a soddisfare anche i palati più esigenti, c'è anche quello degli Who, che dal 1967 (The Who Sell Out) al 1973 (Quadrophenia) hanno vissuto infatti il loro periodo più fecondo e importante, imponendosi al mondo come band di indubbio talento compositivo e spiccata creatività. Sono stati fra i pionieri dei concept album con opere complesse, emozionanti e maestose come "Tommy" e "Quadrophenia", hanno pubblicato album rock praticamente perfetti, come ad esempio lo splendido "Who's Next" nel quale quel genio di Pete Townshend riesce ad inserire i sintetizzatori nel suono della band, ma senza perdere un solo briciolo in carica rock, dando vita così ad un disco dal suono moderno, ma allo stesso tempo un vero classico. Ma se gli Who in studio erano speciali, gli Who dal vivo erano il no plus ultra delle live band, capaci di suonare del purissimo e potente rock senza troppi fronzoli, ma anche i pezzi più impegnativi sempre con classe, vigore e sicurezza. In quest'ottica il disco che meglio rappresenta gli Who come macchina da guerra on stage è il celeberrimo Live at Leeds.
Live at Leeds fu registrato il quattordici febbraio 1970 all'università di Leeds e pubblicato nel maggio dello stesso anno. Il set di allora prevedeva una serie di brani pescati dai primissimi lp e 45 giri, alcune cover rock'n'roll e la messa in scena quasi integrale del loro ultimo disco, l'opera rock Tommy, uscito l'anno precedente. La performance quella sera fu semplicemente straordinaria, impareggiabile, qualcosa di unico ed irripetibile. Per fortuna fu registrata (molto bene) e messa su disco, ma era il 1970 e gli album live non avevano ancora preso piede in maniera definitiva, non godevano della considerazione che invece si aveva per gli album in studio; soprattutto un doppio lp live era ancora considerato un azzardo (nonostante un precedente di grosso calibro come il "Live Dead" dei Grateful Dead), quindi all'epoca i discografici optarono per la soluzione più semplice e, per quei tempi, forse più sensata: un solo vinile, che però contenesse il vero cuore del concerto, un concentrato di Who live breve ma intenso. Fu così che un disco di soli trentasette minuti divenne ben presto uno dei più grandi classici degli album dal vivo. Solo sei pezzi, meno di un terzo dell'intero concerto, ma di una forza ed un impatto devastanti.
La cover "Young Man Blues" fa da apripista ed è un pezzo di puro rock blues pieno di sfuriate chitarristiche, scandito da ripetuti stop & go con un'alternanza tra la strofa cantata e il riff principale che anticipa quel che faranno i Led Zeppelin poco tempo dopo con "Black Dog". L'acustica della sala è favolosa, il suono è pieno, grosso, sembra di poter toccare con mano quelle vibrazioni: è il rock che si materializza, il rock che diventa tangibile, reale, prende forma, prende vita. Segue "Substitute", singolo del '66, alegro pezzo in puro stile beat, ma rinvigorito dal pesante lavoro di John Entwistle al basso: un basso duro, distorto, suonato col plettro credo, un basso che a tratti sembra una seconda chitarra. Altra celebre cover è "Summertime Blues" che, letteralmente stravolta, diventa un vero e proprio hard rock, con Keith Moon che pesta le pelli manco avesse quattro braccia e Pete Townshend che mulinella i suoi riff schiacciasassi. Cover, cover ed ancora cover, l'ultima è un omaggio ad uno dei primi pezzi inglesi di rock'n'roll: "Shackin' all Over" di Johnny Kid; qui è Roger Daltrey che fa la parte del leone offrendo una prova incredibile che lo incorona come uno dei migliori vocalist che il rock abbia mai conosciuto. Si conclude così il lato A, un quarto d'ora appena, ma un quarto d'ora immenso. Si gira il disco, si riappoggia la puntina e parte "My Generation": questa, signori, è la miglior My Generation di sempre, questa è una delle perfomance più incredibili catturate fra solchi vinilici. Spazza via tutto e tutti, potentissima, precisa, inappuntabile. Pete lascia a Entwistle l'assolo di basso e lo sorregge coi suoi riff; c'è da dire che una delle caratterstiche del live at leeds, ma direi degli Who in generale, era proprio questa, cioè che ogni strumento ed ogni componente aveva pari importanza e dignità nelle'economia del suono, così spesso era il basso che faceva gli assoli e le chitarra che teneva la ritmica e poi c'era Keith Moon che rinforzava i riff ed allo stesso tempo sorreggeva il tutto. Ma che mostro era Moon? A sentirlo suonare sembra in continuo assolo, ma contemporaneamente tiene il tempo: uno stile unico ed inimitabile. Questa performance di My Generation allungata fino a un quarto d'ora è un vero e proprio calderone infernale in cui trovano spazio anche svariate citazioni: da Tommy con "See Me Feel Me\Listen to You", ma anche da "The Seeker" ed il finale della splendida (e dico splendida) "Naked Eye", più una marea di altri riff, rullate e assoli da sfamare una generazione intera di rockettari. Sconvolgente, epica, maestosa, e se vi viene in mente qualche altro aggettivo qualificativo, superlativo, lodativo e adorativo, mettetecelo, cazzo, mettetecelo! La traccia finale del disco è una vera e propria corsa sul "Magic Bus", anche qui, il miglior Magic Bus di sempre, clamoroso e senza precedenti. Qui il bello è il dialogo fra Daltrey e Townshend, spesso e volentieri più che una seconda voce, ma anche l'interazione fra il basso di Entwistle e la Gibson SG Special di Pete Townshend. Eggià una Gibson diavoletto special, ma non la special moderna, una degli anni '60, con i single coil P90, le cosiddette saponette. Perchè tutti questi dettagli sulla chitarra? Perchè il suono di Live at Leeds è peculiare, perchè il lavoro che fa Townshend è pazzesco, semplice e geniale allo stesso tempo. Servendosi dei controlli volume separati per i due pickup, Pete riusciva a passare da un suono più leggero, quasi acustico, ad uno più distorto e potente semplicemente spostando la levetta del selettore pickup; un pedale univox super fuzz era invece usato per incrementare ancor di più la distorsione durante gli assoli, e poi c'era un effetto eco usato quasi a simulare la presenza di due chitarre sul palco. Bene, in Magic Bus Pete usa queste tecniche, e lo fa con una padronanza che pare si stia pettinando allo specchio la domenica mattina appena alzato a mezzogiorno. Quando poi si aggiunge anche la batteria e l'armonica suonata da Daltrey sembra che sul palco vi sia un'intera orchestra, ma un'orchestra che suona all'unisono, con tutti gli strumenti che suonano insieme quasi come se fossero l'uno dipendente dall'altro: una coesione ed un affiatamento che lascia sbalorditi. Il finale è un vero frastuono di schitarrate selvagge che manco gli Stooges.
Meno di quaranta minuti, ma un vero e proprio pugno nello stomaco, un purissimo distillato di quella cosa che qualcuno ha chiamato Rock e che a me piace invece chiamare Rock. Si narra o meglio, ho letto in qualche sito, che vi sarebbero alcune sovraincisioni, insomma un po' di overdub su alcune parti vocali, sapete che vi dico? Chissenefrega. Gli Who dal vivo in quegli anni erano dei grandi, e se anche vi fosse qualche sovraincisione questa non cambia di certo la sostanza delle cose, perché anche ascoltando altri live del periodo, come quello all'isola di Wight, si capisce quanto questi sul palco fossero senza rivali o quasi.
Il vinile originale fu impacchettato in una cover da bootleg contenente all'interno diverse sorprese, gadget e memorabilia, fra cui dodici iserti e poster Maximum R&B. Questo il disco storico. Nel tempo però l'album è "cresciuto" grazie al supporto digitale. Nel '95 la prima abbondante aggiunta di brani dallo stesso concerto. Nel 2001 finalmente il concerto completo (a parte qualche edit), con la Deluxe Edition in doppio cd e tutto Tommy sul secondo disco (questo per facilitare l'ascolto, evitando così di spaccare Tommy in due tronconi). La versione del concept qui suonata è molto più grezza dell'originale, chitarra, basso e batteria, senza orpelli orchestrali, semplice, diretto, immediato, non oso dire meglio dell'album storico perchè mancherei di rispetto a quel disco per come è stato concepito e voluto, ma una cosa è certa, il Tommy di Leeds potrà sicuramente piacere anche a chi aveva storto il naso per quello in studio, per credere provate a confrontare le due "I'm Free". Ed infine, di poche settimane fa la versione super deluxe anniversary, che oltre a contenere il concerto integrale a Leeds in doppio cd, contiene anche quello successivo a Hull (stessa scaletta, altri due cd), il vinile originale ed il singolo Summertime Blues\Heaven and Hell. Chiaramente anche tutti gli altri brani meriterebbero qualche parola, ma sono veramente troppi, mi limito quindi a dire che la qualità è sempre quella, elevatissima.
Chi, per qualche strano motivo (perché la vita a volte è strana), non dovesse ancora avere questo disco sappia che è ancora in tempo per procurarselo. Quindi, Tu che non conosci Live At Leeds ed hai appena letto questa ammorbante e noiosissima recensione, vai tranquillo che il disco è tutta un'altra cosa. Beh, ancora qui? Che aspetti, corri ad ascoltarlo! E mi raccomando, fai un po' di mulinello come fa Pete, perché fa bene al corpo e allo spirito.
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