22 anni sulla scia, in tono minore solo perché in Svizzera non c'è Los Angeles, gli Young Gods oltre ad essere orgoglio della nazione spingono una mistura metallica di rock-wave ed elettronica che definire 'pionieristica' è poco.
Non è un caso se Chemical Brothers, Nine Inch Nails, Mike Patton, KMFDM e non ultimi gli Unkle, tributano riconoscenza e sommo rispetto a questa band. In "Tv Sky" (andatelo a ripescare, è uno di quei dischi da 5 stelle ingiustamente finito nel dimenticatoio) erano stati i primi a ribaltare la formula tradizionale dell'industrial: non chitarre elettriche sul drumming campionato ma chitarre campionate sulla batteria 'dal vivo'. Poi si perdono, poche cose interessanti ed il clamoroso sorpasso a destra da gente che riesce a vendersi meglio il nome e la nazionalità; quindi i nostri spariscono dai radar. Buio sullo schermo.
Detto questo, "Super Ready/Fragmenté" è il loro tredicesimo album -e quando una band è cazzuta, lo vedi anche dai titoli dei dischi con cui si rifà viva- e spiega in dodici battute perché gli Young Gods sono ancora i migliori in quello che fanno. Il led rosso torna a lampeggiare sullo schermo visore: bentornati. Le prime due tracce sparano pura adrenalina, ti resta solo da pomparle al massimo nelle casse dello stereo e farti il viaggio. "I'm the Drug" e "Freeze" sono pulsazioni elettroniche leccate di new-wave, amplificate con il gusto dell'hard rock e missate con irresistibile effetto palleggio tra i canali left e right: si vola. "El Magnifico" una bomba tribal-industrial che attacca i neuroni. Per "About Time" e "Super Ready" gente come i Killing Joke impazzirebbe d'invidia; "Secret" ricorda a Trent Reznor come si armeggia il suono senza cercare puntualmente il ritornello ad effetto. E nel preciso istante in cui pensi di averne abbastanza di beats quadrati, distorsioni che si infrangono in multicampionamenti e chitarre-synth rimbalzate ai limiti del noise, questi figli di puttana virano verso un originalissimo soundscaping misto al sapore della psichedelia tardo 60 in chiave "electro". "Stay with Us" sfoggia sitar e vocoder. Franz Treichler riesce a rendere credibile la sua versione europea a metà tra Jim Morrison e Simon Le Bon, canta anche in francese e stupisce per la sua magistrale abilità nel sospingere il ritmo solo con le parole. Favoloso. Sei li che galleggi nell'iperspazio tra te ed il tuo stereo e di colpo esplode la migliore del lotto: "Everythere". Solo dei navigati artigiani come gli Young Gods potevano piazzare il brano più deflagrante proprio nel punto di chiusura del disco, cioè quando credi che atterrerai senza scossoni.
Il messaggio è chiaro: non atterreremo mai. Fortuna che mi son portato i panini da casa.
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