Cos’è la musica? Cos’è il genio? Se è vero che queste due domande resteranno per sempre insolute, è anche vero –purtroppo, e soprattutto in ambito musicale- che le persone amano demolire un qualsiasi disco che non sia del genere che si aspettano, come se le aspettative di ognuno costituissero un parametro imprescindibile per la “promozione” di un lavoro.
Ecco che improvvisamente ogni disco di Gigi D’Alessio diventa un capolavoro, ecco che si celebra la sterilità della musica, ecco che Avril Lavigne diventa un modello di vita (oltre che musicale) a scapito di ciò che conta davvero, ecco lo stop di fronte alla orrenda copertina del recensendo album.
Perché questa doverosa (e tediosa) premessa? Per cercare di aprire l’anima a chi leggerà questa recensione, senza pregiudizi. Perché “Theli”, fatica dei Therion targata 1997, relega in secondo piano la componente death a favore della cosa più importante: le emozioni, queste sconosciute (troppo spesso), provocando una mezza insurrezione da parte dei defender. Un disco –dicevamo- poco metal ma molto suggestivo, come ci anticipa l’intro (a dir la verità canonica, ma molto affascinante). Sono i cori di “To mega therion”, però, ad introdurci realmente in Theli, e a ruota le “orchestrazioni” (realizzate con il sintetizzatore, ma molto bene) che accompagnano le chitarre distorte in un vortice vocale impressionante (soprani, baritoni e la voce del singer aggressiva ma mai violenta). Una precisazione: non aspettatevi i coretti infantili dei Blind Guardian di A night at the opera, né gli epicissimi e adorati cori Bathoriani. Questi sono cori pomposi, forse anche troppo, ma intensi e maestosi.
Cult of shadows invece parte più darkeggiante, mentre i cori (una costante in tutto l’album) a seguire imbastiscono la linea portante del brano, così come accade nella successiva “In the desert of Set”, che però si assesta su coordinate leggermente più aggressive, grazie anche alla voce maschile più presente rispetto ai brani trascorsi. Permane anche in questo caso un’atmosfera che alcuni hanno definito orientaleggiante ma che in realtà può essere inquadrata come egizia, ipotesi confermata dalla già citata (brutta) copertina, sebbene questo onestamente sia il brano meno riuscito del platter.
L’intermezzo serve solo per abituarci alla seconda parte dell’album, quella dei capolavori. E’ l’oscurissima Nightside of Eden che inaugura questa serie “stellare”, per lasciare il posto a “Opus eclipse”, traccia piuttosto breve che funge da preludio a “Invocation of Naamah”, potente e decisa, bella, coinvolgente, melodica il cui unico difetto è quello di essere subito precedente a “The siren of the woods”, IL CAPOLAVORO, sicuramente la traccia meno metal dell’album (perché, è un album metal?) condita da una chitarra acustica malinconica, una tastiera che “piange” in sottofondo e degli ottoni (sintetizzati) commoventi e appassionati. Due minuti di intro per questa traccia (che sfiora i dieci minuti) e la pacata voce femminile, controllata a distanza da Christofer che si cimenta in una prestazione vocale degna dei migliori Dead Can Dance (anche se con una musica molto diversa), rendendoci partecipi della tristezza interna che affiora prepotentemente. E poco importa se verso la fine alcune accelerazioni provano a fare capolino, soffocante ancora una volta dal male di vivere, dall’etereo ed immortale dolore.
Che strano, siamo già alla fine, ed è compito di “Grand finale/Postludium” chiudere trionfalmente (proprio in contrapposizione con l’introspezione di “The siren...”) questo Theli, magniloquente commistione tra la musica classica e il metal (prendete con approssimazione questa parola, siamo distanti anni luce dai pur validi “Lingua mortis” dei Rage o dalla sinfonicità di “Death cult Armageddon” dei Dimmu Borgir). Questa è tutt’altra cosa. Questa è opera (d’arte, perché no?), nel senso più teatrale del termine.
La valutazione finale non può che essere positiva, uno dei grandi capolavori dei Therion e della musica, il trionfo dell’anima a discapito delle etichette, contro chi dice che musicisti coraggiosi come i nostri (e altri geni del calibro di Borknagar, Arcturus e Ved Buens Ende) meritano il pollice verso perché non fanno un metal “true” (non capiscono che sono le persone a dover essere true, non un cd di plastica e alluminio, non capiscono che niente è comparabile al NOSTRO sentirsi veri, appagati).
Un punto di partenza per i Therion, una tappa significativa della vita di chi ne incrocia il cammino.
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