Living and dying in Chinatown...

Una jungla tutta da esplorare. I primi locali gay-friendly, peep show e bordelli la sua vegetazione. Malavita, corruzione, le prime gang, alcool e droghe (le più svariate) i pericoli in agguato.
In poche parole il quartiere made in China della Londra che si affacciava alla nuova decade.
Il preludio alla gestazione di questo "Chinatown" ('80) per i Lizzy non è dei più felici. L'abbandono di "Robbo" Robertson proprietario del 50% del suono magico del rifforama e dei soli esplosivi che fu il trademark dei T. L. fu definitivo. Gli attriti interni fin li tenuti a bada, ebbero il sopravvento sulla ragione. Gli abusi vari furono i giusti complici, scardinando le ultime remore.
Diede una mano per sostituirlo l'amico fraterno Gary Moore irlandese di Belfast, (guarda un po') con lui l'ottimo "Black Rose"('79), poi i litigi e la voglia di sfondare da solo grazie al talento naturale nei polsi e nell'ugola di razza. Così tutto da capo.
A ciò aggiungete l'atmosfera viziosa dipinta all'inizio in cui si svolsero le registrazioni dell'album.

Ma come nelle vecchie storie che si sentono ancora da queste parti non tutto il male vien per nuocere; tantè che il biondo Snowy White (al tempo turnista con Roger Waters) abile chitarrista dall'animo blues, si trova a duettare in tipico stile Lizzy con Scott Gorham, dentro i solchi di quello che fu per stessa ammissione di Phil Lynott il disco da dentro o fuori. Il microcosmo cinese fatto di mille contraddizioni (la cultura del lavoro simbolo del substrato popolare più basso messa in contrapposizione allo sfarzo delle"famiglie"potenti osteggiato e rincorso con qualunque mezzo meglio ancora se illecito) furono spunto ed ispirazione per Lynott, a cominciare dalla copertina raffigurante il re dragone simbolo imperiale della Cina. Ma badate bene non quello a cinque artigli che trovate nei libri di storia, ma a tre (evidente riferimento alla triade, la temutissima mafia cinese). L'artiglio della morte (il MALE) in mezzo agli altri due simboleggianti POTENZA e DENARO. In fondo era anche ciò che vedeva tutti i giorni per i viottoli lastricati di quella ghetto city che era Soho. Erano gli anni dei Kung-Fu movie e della exploitation a macchia d'olio del signore venuto dall'est. La title track è questo e anche di più, è un totem eretto alle twin guitar, che per i Lizzy erano un po' come la calzamaglia per batman(quello dei telefilm ‘70) o per stare un po' più alti come lo slancio verticale degli edifici nello stile gotico.

Inutile stare a dire quanto furono importanti e basilari  per il movimento hard rock o per la NWOBHM in procinto di esplodere. Chi non ha mai sentito almeno una volta "Killer On The Loose".
Andando più a fondo:
L'inno a non mollare mai, l'energica "We Will Be Strong" va a braccetto con il blues-rock al fulmicotone di "Sugar Blues" che cita neanche troppo velatamente il trio texano Gibbons-Hill-Beard  grande amore del nuovo Snowy White. A dar man forte ad una band già padrona di sé, la presenza ai cori di Midge Ure e l'introduzione del quinto elemento presente per ora solo nei concerti live ma già citato nei credits. Mi riferisco all'allora, ancora minorenne, Darren Wharton (keyboards e cori) anch'egli amico di Lynott.(autore poi con i Dare del capolavoro romantico "Out Of  The Silence"). 

La vera grandezza dei Thin Lizzy non stava (solo) qua, ma andava ricercata nell'approccio compositivo lungimirante e nella mescolanza di stili. Un incrocio frutticolo-musicale originato dal perfetto equilibrio tra il suono tipicamente inglese e quello americano. Due modi di interpretare rock che nei settanta in molti casi erano in contrapposizione. Il frutto bastardo dell'unione tra due chitarre soliste. Il tocco americano di Gorham e quello che puzzava di malto dello scozzese Robertson ed ora in questo "Chinatown" quello tutto british di Snowy White (tenetelo d'occhio ora con i suoi Blues Agency). Quell'unicità data dalla unione di due elementi tanto diversi (anche sul palco), era la loro forza, come la miscela bastarda che scorreva nelle vene brazilian-irlandesi di Phil Lynott. Un personaggio unico dal carisma abbagliante la cui penna rivelava la sua duplice natura fatta di forza e di disarmante fragilità. Inutile dire quale delle due avrà la meglio su di lui, le serate passate in compagnia di Sid Vicious, Johnny Thunder and Co. hanno fatto il resto. Ma anche da solo sapeva farsi del male molto bene.

Un poeta moderno Lynott, in grado di decantare tanto le tradizioni celtiche della sua Irlanda quanto le storiacce urbane dei sobborghi di periferia dove il vero eroe è chi sopravvive. In Chinatown più dei passati album si è badato al sodo, il giusto mix di intrecci chitarristici senza perdere il sentiero melodico dettato dal buon Scott Gorham, la voce narrante di Lynott e il drumming di Brian Downey, uno dei più sottovalutati batteristi rock in assoluto. Riferimenti agli indiani d'America "Genocide" (la naturale prosecuzione di "Massacre" da "Johnny The Fox" 1977) tematica ricorrente nel songwriting del bassista. Immaginarsi i tamburi di guerra e i fantasmi dei nativi che infestano le caotiche vie della Cina in miniatura è ancora uno spettacolo. 

Trasversali da sempre, mai troppo hard da rientrare nel filone heavy (anche se dal vivo heavy lo erano davvero) né troppo FM oriented in tutta la loro carriera e questo Chinatown non fa eccezione. A volte epici altre volte romantici, senza mai sfociare nel pacchiano o nella parodia e se mi permettete senza mai dover travestirsi o pittarsi la faccia.....
Alle nuove leve che sfoggiano le t-shirt nere di un Eddie in versione egiziana o in quella futuristica di Somewhere... Consiglio di "sporcarsi le mani" ma di non cominciare con questo "Chinatown" bensì di ripercorrerne l'evoluzione album dopo album in modo da capire quanto è il peso e quale l'eredità  delle tele che avete sulle spalle.

In buona fede vi dico che se vi trovate in centro a Londra lungo Gerrard Street e dopo una corsa in risciò vi chiedono più del dovuto, voi non fate storie e pagate perché come diceva il vecchio Phil : << When you are in Chinatown you better look around>>, io lo faccio sempre e sono ancora qui a raccontarvelo.
Solo ora mi accorgo di essermi dilungato inutilmente sprecando parole per rendere onore a chi forse non lo ha chiesto. Bastavano gli ultimi due versi della celebre "Warriors" (da "Jailbreak" 1976) per spiegare Phil Lynott, la sua vita e la sua band: << My heart is ruled by Venus and my head by Mars>>.

Benvenuti al capodanno cinese.

Il parere del commendatore Bossolazzi:
Di frontman come il Filippo non ne nascono così spesso e di band come i Lizzy non ne nascono più.
4 nespole al disco, massimo dei voti a tutto il resto..... Se non si era capito.

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