Chiunque abbia avuto la (mala)sorte di parlare col sottoscritto nell'ultimo paio d'anni avrà sicuramente sentito del Paisley Underground e dei Thin White Rope. Se la presente recensione non esorcizzerà la piacevole ossessione per questo gruppo probabilmente avrò raggiunto il punto di non-ritorno, e finirò col sparare a Guy Kyser uscito dalla sua Facoltà di Botanica, giù nel Texas.

Acclamati dalla critica, estasiata da un rock così puro e così bastardo allo stesso tempo, molto meno conosciuti ai più, questi (ex)giovani musicisti si fecero distinguere dal rock malinconico figlio dei Byrds (vedi REM) per un'attitudine cupa, introspettiva, nervosa. Il cantante, chitarrista e compositore Guy Kyser era la voce del ragazzo di periferia che sorride ad una vita ai margini, lontana sia dalla Venice Beach decantata dagli insopportabili power-poppettari borghesi, sia dall'autodistruzione sistematica dei più rinnegati paladini hardcore del sottobosco USA. Perché a Davis, nel bel mezzo del Nulla polveroso, si deve stare pure piuttosto bene.

Kyser poteva essere l'ennesimo artista maledetto (e morto), se non fosse stato abbastanza saggio da mollare chitarra e alcol dal giorno in cui gli ingaggi non riuscivano più a coprire le spese per suonare tra un pub e l'altro, concedendosi un solo sfogo musicale una decina di anni dopo nel raro ed interessante "Mummydogs". "In The Spanish Cave" è un'opera di mezzo, un crocevia musicale che si pone tra gli esordi punk-new wave esistenzialisti e la riscoperta di una personale canzone rock "d'autore" con gli ultimi due LP in studio. Le similitudini con l'iconografia Grateful Dead-iana non sono casuali: il folk che gli storici pionieri psichedelici dissotterrarono è lo stesso che Kyser va cercando con l'iniziale "Mr. Limpet" (country esagitato con l'incipit in omaggio a Marty Robbins). La varietà dei pezzi rimarrà unica nella loro discografia: il rock simil-Television di "Timing", il folk puro di "Ahr-Skidar", il rock di memoria 60iana di "July", il country spettrale di "Astronomy".

Il pezzo più "conosciuto" (sebbene la parola sia piuttosto fuori luogo) anche se non il migliore è "Red Sun" con la sua indolenza simil-mediorentale arricchita da trombe tex-mex di buon impatto. Cardine fondamentale del loro suono era l'altro chitarrista Roger Kunkel, responsabile di quelle personalissime rasoiate di feedback striscianti accoppiate alla ruvidissima voce del leader: ascoltare la qui presente "It's OK", blues esasperato, riproposta anche nel finale LP dal vivo ("The One That Got Away", opera immensa) per sentire la propria mente vibrare ad ogni pennata. Cosa manca per il capolavoro? Forse, solo lo struggente intimismo che fece grande ed irraggiungibile il precedente Moonhead, decisamente più monotematico ma più toccante.

Se Jeffrey Lee Pierce avesse smesso di collezionare aghi, forse avrebbe suonato nei Thin White Rope, ma la sua storia seguì un corso più decadente. Lasciarono abbastanza album per entrare nella leggenda, senza sputtanare la propria Arte.

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