Mi accingo a stendere una medio-breve disamina su "In the Spanish Cave" (conosciuto anche come "Captain Long Brown Finger In The Spanish Cave"), terzo pilastro della carriera dei Thin White Rope, non prima di essermi documentato il giusto sulla biografia della band, rintracciandone, tra l'altro, il contesto di riferimento, e non prima di aver letto i testi dei brani che compongono l'album.

Innanzitutto, "In the Spanish Cave" (pubblicato dalla Frontier Records, casa discografica indipendente sita nella Sun Valley, quartiere losangelino, nel marzo 1988, stesso mese di "Surfer Rosa" dei Pixies, che operano, d'altro canto, sulla costa Est degli Stati Uniti) si configura come un lavoro molto variegato, diviso tra uno psychobilly melodico (di marca statunitense, à la Reverend Horton Heat), sapientemente sporcato dalla voce di Guy Kyser, echi jangle pop, e un certo heavy sound di matrice Seattle [anche se i Thin White Rope, formatisi nel 1984, e chiamatisi così per una frase di William Burroughs, pensata come metafora dello sperma, e inclusa nel romanzo "Il pasto nudo", del 1959, sono californiani - come si poteva evincere dal luogo di registrazione -, quindi frequentatori delle medesime latitudini dei futuri portabandiera del cosiddetto "desert rock", i Kyuss].

Lo spoken word di "Ahr Skidar" evoca scenari southern, pur senza la retorica del filone. I brani che lo precedono sono poderosi: "Ring" (come la "Timing" che arriverà più avanti nel disco) presenta un andamento ritmico-melodico à la R.E.M. di album come "Document" e il coevo "Green" (soprattutto "Timing", con le sue prime note di chitarra, ricorda da vicino "Orange Crush" del gruppo di Athens, Georgia); in "It's Ok" si avverte l'influsso di "Rumble" (1958) di Link Wray, strumentale progenitore dei riff "grungy".
Ma questi - "Ring" e "It's Ok" - fanno da anticamera al meglio che deve ancora venire. "Red Sun", probabilmente il picco dell'album, è un brano straordinario per la sua struttura e per l'afflato cinematografico, dovuto fondamentalmente all'entrata in scena, a un certo punto, verso il finale, di trombe memori della lezione di Morricone. "Munich Eunich" (non presente nella scaletta originale, ma introdotto in riedizione) è un nervoso sketch dalle ritmiche spastiche e dalla linea vocale cantilenante, che culmina in una "due note" di elettrica lancinante, il che lo rende l'episodio più scatenato dell'intero lotto (nella sua incarnazione, appunto, riedita, "seconda").
Il retrogusto country che permea l'album è imparentato idealmente a sonorità di band come i 16 Horsepower, che non a caso si sarebbero formati, qualche anno più tardi, nella stessa Los Angeles.

Ad aprire il secondo lato dell'LP originale, "Elsie Crashed the Party", momento più vertiginoso, erede del punk rock prestato all' heavy metal, prende i Motorhead e li mette al servizio dello storytelling.
Una boccata d'aria, un attimo di respiro, arriva con una ballata, che non rinuncia tuttavia alla nevrosi: "Astronomy", sinistro e torrido quadretto neo-noir.
Gli ultimi due titoli dell'LP, "Wand" (squarciato da un urlo in pieno stile Iggy Pop di stooge-iana memoria ... "TV Eye", spostati!) e "July" (impreziosito da un tappeto di organo leggermente in sordina) chiudono in bellezza un disco godibilissimo attraverso le sue contaminazioni, che convergono in uno stile compatto da cui lasciarsi travolgere.

Le storie cantate-recitate da Guy Kyser rappresentano il giusto veicolo per la creazione di una mitologia che l'art cover (stupenda!) lascia intuire, e che ha a che fare con motori, scenari torridi da deserto e texano e californiano, come anche scenari acquatici; guardie al confine, e, in generale, persone di cui non fidarsi. I testi sono spesso brevi, essenziali, scheletrici, come il relitto della nave e i teschi che lo abitano in copertina.

Voto: 8,5/10

PS. Il titolo dell'album è un probabile riferimento all'omonimo romanzo (risalente al 1936) dell'autore britannico Geoffrey Household, che sarebbe morto il 4 ottobre 1988, qualche mese dopo l'uscita del disco stesso.

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