Apatia. La cancerosa sensazione che ti attanaglia dopo un periodo, più o meno breve, di pace dei sensi. Torni alla vita vera, ricordi che l'avevi lasciata lì, a mezz'aria, prima di quelle ore serene. Prima di tornare alla routine quotidiana, lontana solo qualche centinaio di chilometri di autostrada, in una sera di inizio estate, decidi quale manciata di canzoni ti dovranno fare compagnia. Per evitare il sonno, per aggrapparsi agli attimi lasciati alle spalle, ancora tiepidi, sperando che tornino senza troppa attesa. Thin White Rope, "The Ruby Sea".

Anno 1991, gli ultimi barlumi di un suono nato vecchio e giovane allo stesso tempo, quel rock acido e tagliente, polveroso. I ricordi di Dylan rivisitato da un gruppo punk in crisi esistenziale, abbandonati su una strada di periferia mentre alcol e malessere si mischiano in liriche cupe. "The Ruby Sea", la solita voce bassa ma non disperata di Guy Kyser, personaggio di confine per eccellenza; la batteria, secca, scandisce i movimenti. Il country che si scrolla di dosso cappelli e frange ripescando la polvere, amplificando i vecchi strumenti. Distorsioni e melodia.

Il songwriting puro, la penna che scrive canzoni sulla carta, possono non essere ispirati come qualche anno prima ("Moonhead"), o appena dietro l'angolo, con le composizioni intimiste di "Sack Full Of Silver". Ma qualcosa lo fa preferire ad altri. Forse è il suono lontano delle chitarre, sempre più eteree. Forse è la progressione di "Hunter's Moon", o la tradizionale "Bartender's Rag" con la sua semplicità. La stessa traccia che dà il titolo all'album può bastare.

Oppure è solo l'ormai inestricabile sensazione di quella sera ancora chiara, in viaggio di ritorno. Tutto ciò non rende il voto oggettivo, non tiene conto di molti aspetti. Un professorino avrebbe da ridire, e probabilmente a ragione. Ma finché non imparerò a vivisezionare la musica, come disse qualcuno su queste pagine, rimarrò ingenuo.

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